Whatsapp e i cafoni digitali
La nostra quotidianità digitale oggi giorno è inesorabilmente scandita da continue notifiche, messaggi, mail, comunicazioni via whatsapp. Si parla così tanto dei nativi digitali, i millenials, ovvero i nati nel nuovo secolo, oramai tutti maggiorenni o quasi. Mi chiedo, esiste un’etica della comunicazione sui social network? La così detta netiquette, ovvero il galateo della rete?
Certamente sì. E molto si è scritto in tal senso. Ho notato che esiste un gap generazionale tra chi, come me, utilizza gli strumenti di comunicazione digitale e le nuovissime generazioni, un gradino sul quale noi, generazione dal “pollice lento “, inciampiamo molto frequentemente: il buon gusto e la maleducazione.
Tralasciando il fatto che spesso si abusa della comunicazione tramite whatsapp e che ciò riduce i confronti, i chiarimenti e gli scambi de visu tra gli interlocutori, alimentando invece a mio avviso un atteggiamento di “vigliaccheria sociale”, esistono poi dei veri e propri cafoni del web. Coloro che leggono i messaggi e non rispondono a domande anche pressanti e urgenti, o se rispondono lo fanno a tempo loro, anche a distanza di giorni, dando così un valore spazio-temporale del tutto personale e completamente staccato dal reale.
Per non parlare poi dei così detti gruppi, comunità virtuali che si costituiscono con lo scopo di informare contemporaneamente più soggetti, ma che non di rado finiscono per rivelarsi delle finestre da cui affacciarsi ed ascoltare le conversazioni tra due o più persone, come fanno le portinaie, con tutto il rispetto per la categoria.
Circa cinque anni fa decisi di iscrivermi a Facebook perché seppi che erano state pubblicate delle mie fotografie scattate insieme a dei cari amici, la mia esperienza durò solo sei mesi! Il tempo di rendermi conto che la comunicazione sul web, quella fatta da profili personali, aveva un’etica a me del tutto sconosciuta, un’etica che però mi consentiva di sapere esattamente chi mangiava cosa, quando la digeriva e a volte anche altro.
Ricordo perfettamente che fu postata la storia di una zuppa di pesce: dalla pesca, all’ eviscerazione della malcapitata preda, fino alla sua cottura! La cosa, per quanto banale, mi turbò non poco in quanto capii quanto fosse differente, in quel contesto, il concetto di sé stessi rapportato a chi ti circonda, ti “segue”, e alla sua percezione delle tue “storie” della vita che si racconta.
La comunità reale la vedi, la guardi, quella virtuale è sterminata e ti guarda a sua volta in situazioni personali completamente disgiunte dalle tue; condividendo sì, ma con uno stato d’animo che segue inevitabilmente delle linee differenti. Su Facebook era tutto un fiorire di “mi piace”, “stupendo”, “meraviglioso”, non vi era traccia di disappunto per le immagini che scorrevano. Questo mi fece riflettere. In quegli anni sul social network, non esisteva il pollice verso, leggendo poi un libro regalatomi dalla persona che lo ha scritto, capii che la funzione dei social è quella di aggregare, per aumentare il loro business. Il pollice recto aggrega, il pollice verso andava motivato e per motivarlo era necessario scrivere, rendendo così più complicata l’espressione del proprio disappunto. Ma non corriamo forse il rischio che questo finisca per avallare un pressappochismo e una superficialità dei rapporti e dei sentimenti che vengono relegati alla semplice simbologia di un’icona?
Ora, mentre le nuove generazioni, avvezze ai nuovi codici di comunicazione, trovano normale soprassedere su alcune mancanze di etichetta, così come su alcune regole grammaticali ed ortografiche, alcuni della mia generazione con me in testa, trovano faticoso adattarsi a tanta faciloneria.
Il mio non vuole essere un giudizio negativo tout court sulla comunicazione digitale: sarebbe stupido negare i suoi evidenti vantaggi, come la possibilità di veicolare anche importanti informazioni istituzionali e sociali; tant’è che grazie a loro viene data a me, come ad altri, la possibilità di comunicare con centinaia di persone pur non essendo un comunicatore di professione. Il mio è un invito a riflettere sull’etica della comunicazione digitale, che non va disgiunta dall’etica umana e personale, ma andrebbe considerata come un’estensione di essa. O correremo il rischio di trasformarci da animali sociali in cafoni digitali.
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