La magia di Renoir
Ci sono tanti modi di apprezzare la vita, l’universo. Uno può essere di decidere per un breve viaggio, magari alla ricerca di qualcosa che è sempre sfuggito di mano. In quest’ambito, recarsi a Pavia prima del 16 dicembre può rappresentare un minimum accettabile. Il perché è presto detto. Non c’è solo il fascino di una città silenziosa che vi guarda e vi culla in un medioevo palese dal quale farete fatica a staccarvi, con re incoronati, o atterriti dalle pestilenze, chiese magiche racchiudenti santi dottori , sassi di fiume caduti come stelle innumerevoli a pavimentare le vie, mercatini improvvisi che ti creano l’imbarazzo della contrattazione. Prima del 16 dicembre c’è anche Renoir a Pavia, esposto al Castello. Così mi ci recai fiducioso, guidato da un istinto che mi portava a cercare il paradiso terrestre in questa valle di lacrime. Acquistato il biglietto, mi fu chiesto da dove venissi e lì fui titubante, ma poi risolsi di dire la verità. Così fui ben presto di fronte a qualcosa che mi succhiò dalle ossa, introiettandomi in un fogliame accecante di giardino, ove nuvole ondulate gettavano pulsioni spinte dal vento, e due esseri umani, un uomo e una donna, raccoglievano fiori. Non credo che fossi invitato a prendere parte alla scena, ma mi ci introdussi quasi di soppiatto, nascondendomi dietro un albero sfumato sulla destra, per osservare meglio le cose. Vedevo insetti vagare a milioni sul limite ondulato tra erba e cielo, con un ronzare fragoroso ma armonico. Quelle macchie rosse che vedevo da lontano come segni indecifrabili di un alfabeto morse esoterico erano in realtà papaveri beanti alla luce. I due non mi videro, continuavano a raccogliere fiori, affrendosene reciprocamente. Fu allora che capii come il bene assoluto viene dallo spirito, dalle emozioni,forse dall’anima, mentre ciò che compriamo è spesso superfluo e non può che offrire un benessere relativo e e limitato. Mi inebriai di blu, di bianco, di violetto, prima di accorgermi che le nuvole avevano oscurato il sole in quel verde assordante e che i due mi voltavano le spalle per tornare forse verso una casa che io non vedevo, che forse non gli apparteneva nemmeno. Il tempo di udire il tintinnìo della pioggia sulle foglie degli alberi, di percepire sulla pelle la freschezza dell’acqua che ad aghi gentili scendeva dal cielo, il tempo di vedere la giovane donna che si voltava per un attimo permettendomi di osservare la carne rosata del volto, indice di una buona circolazione, il tempo di muovere le palpebre e fui fuori dal giardino, in quelle scuderie in penombra del castello, a ringraziare i miei passi che mi avevano da Galatina portato fin lì a vivere un sogno sfumato, fatto di colori.
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