La morte a Quattrocchi

Quando ho sentito quel cognome in tv, la mente è tornata subito a 15 anni fa. Per me Quattrocchi è solo Fabrizio. Il 14 aprile 2004 il siciliano 36enne, che lavorava in Iraq come guardia di sicurezza privata, venne ucciso a Baghdad da un gruppo di sequestratori che si facevano chiamare "Falangi verdi di Maometto". Venne fatto inginocchiare in una fossa. Aveva le mani legate e una sciarpa che gli copriva la testa. Toccandola chiese di potersela levare e aggiunse: "Vi faccio vedere come muore un italiano". Un attimo dopo gli spararono.
Il video dell'esecuzione fece il giro del mondo e segnò in modo permanente tutti noi che ancora faticavamo a capire il perché della guerra in Iraq e ci ritrovavamo davanti ad atti di eroismo dolorosi che ci sembravano appartenere solo a storie lontane nel tempo e nello spazio.
Oggi affrontiamo nuovamente "la morte a Quattrocchi". Una morte diversa, provocata, violenta anche questa, ma spogliata da qualsiasi possibilità di includere nella sua tragicità uno spiraglio di coraggio. Maurizio Quattrocchi, 47 anni, domenica scorsa, alle 4 del mattino, nella provincia bergamasca, ha ucciso a coltellate la moglie 36enne, Zinaida. Si è costituito solo in serata quando, accerchiato dalle forze dell'ordine, si è reso conto di non avere scampo. L'aggressione è avvenuta davanti a casa della sorella della donna dove Zinaida si era rifugiata con le figlie per stare lontana dal marito, con cui il rapporto si era evidentemente deteriorato per chissà quale clima di paura vissuto.
La mente ha unito questi due fatti di cronaca, così distanti tra loro eppure incredibilmente legati dal sapore metallico del sangue, partendo in modo inconscio da quel cognome. E ha fatto una riflessione su quanto la morte innaturale sia sempre di più parte straziante della nostra vita. Pensare di non avere il potere di evitare nulla, credere che un po' di accortezza, di sensibilità, semplicemente di umanità non possano fare mai la differenza, è un chiodo appuntito su una croce troppo grande, che ci sta schiacciando tutti indistintamente.
Ma è davvero così? Davvero non possiamo nulla? O è piuttosto questione di volontà? Preferiamo tenere la benda sugli occhi, girarci dall'altra parte e "accada quel che accada" o abbiamo la forza di guardare le persone in faccia, capirne i problemi, condividerne i timori ed esserci per loro?
L'ordinarietà di un altruismo semplice può essere il nostro atto di eroismo.

Mercoledì, 9 Ottobre, 2019 - 00:08