"Una vecchia baldracca scomposta"
Un titolo, evocante piazza Vecchia, che ho intravisto su una pagina facebook, con tanto di ringraziamenti all'autore del medesimo, mi ha fatto tornare alla mente un memorabile scritto del compianto Gino Anchora, pubblicato ventidue anni fa nel suo, ormai introvabile, libro "Sessanta righe in cronaca" . Confesso di non avere letto il testo a cui era stato attribuito il titolo perché da alcuni anni non visito più quel sito ma conoscendo, da quasi sessanta primavere, il suo direttore ed avendo avuto un interessante scambio di battute con l'autrice della missiva, riesco a immaginarne il contenuto.
Andare a rileggere il prezioso scritto del caro Gino farà bene a tutti. Conoscere la storia (anche di chi a Galatina fu femminista ante litteram) ci aiuterà a comprendere la realtà che non è mai bianca o nera ma ha, invece, tante sfumature di grigio e soprattutto ha milioni di colori che spesso, accecati dal nostro straripante ego, non riusciamo più a vedere. (Dino Valente)
GALATINA (di Gino Anchora)
"Galatina è una città invertebrata: le sue grandi mura sono crollate sotto i colpì della storia. Resistono tre porte che immettono nelle moenia. Poi un gomitolo di strade e viuzze ed è subito centro storico. Chi arriva qui spinto da un itinerario turistico fuori catalogo bussi alla bottega di qualche barbiere se vuole scoprire le verrtebre interne della città. Si metta seduto e ascolti: tra un taglio e l’altro, oltre alle ciocche di capelli, cadranno per terra brandelli di chiacchiere. Qui arriva il percolato della società, spesso distorto, amplificato o ridotto ai minimi termini: in un'ora si può sapere quasi tutto. O almeno quello che basta alla curiosità del visitatore. Adesso le sale da barba hanno nomi pretenziosi, spesso fanno ricorso a gallicismi per l'insegna e i figaro non curano piu i calli e i duroni né cavano i denti, come una volta. Mesciu Pietro Cumbà, Cici Taccia, mesciu Cesare Valente, Giulio Teco, Santannamia, erano i barbieri più in di una Galatina pettegola dove le notizie fresche di sapone venivano prima del taglio di capelli. Nella bottega di Pippi Marra, nella centralissima piazza San Pietro, si respirava aria di Soviet.
Antifascista della prima ora. amava ripetere agli habitué, di quella sua fucina rivoluzionaria che mai il Pci sarebbe andato al potere con il voto. “La scheda nell’urna" ripeteva convinto fino alla noia, “non è mai rivoluzionaria”.
Anche il borgo antico ò cambiato. Piazza Vecchia oggi somiglia ad una vecchia baldracca scomposta. Fu una ragazzina incipiente, giovane, bella e ricercata che appendeva i suoi seni alla finestra, accanto ai vasi di geranio e di basilico. Al civico 12 si vendeva amore a prezzi controllati: un attivo commercio di sogni e languide carezze. E consentiva anche un posto a sedere, nelle lunghe sere d’inverno, a giovani squattrinati, a mariti delusi e a vecchi impenitenti: a tutti veniva offerto un sorriso, quando non avevano la possibilità di comprare altro. O il compiacente permesso, ai più gagliardi, di un vigoroso colpo al fondoschiena di quelle leggiadre farfalle che avevano un nome estemporaneo, inventato dalla fantasia dell’ultimo amante appagato.
Per questo piazza Vecchia era l’ombelico odoroso di Galatina: oggi il ricordo di quel luogo ristagna tra le case diroccate ed abbandonate. E le stradine non sono più l’imbuto chiassoso delle donne e dei monelli che a gruppi, per farsi coraggio, spiavano dal buco della serratura, pensando di scorgere il paradiso all’interno del civico 12. Poi, confusi da quelle fugaci immagini rubate, nascosti nell’ombra dei portali, facevano le prove generali per verificare se erano pronti per saltare il fosso. Eccitati dalla fantasia, desideravano farlo con la rossa o con la bruna o con la bionda, secondo la circostanza, percorrendo con un faticoso “fai da te’’ un sentiero di lussuria a buon mercato. Rosetta la bella riscuoteva i ticket, attenta a mantenere il decoro del luogo e a scacciare i soliti piantagrane spacconi o i minori di sedici anni, sempre al verde, che bussavano con la speranza di entrare, nascondendo la loro palese pubertà, tradita dai vistosi foruncoli sul viso.
Dal 12 passò tutto l’esercito americano di stanza presso l’aeroporto galatinese e gli scugnizzi locali fecero affari d’oro con i “paisà”, accompagnandoli per mano in piazza Vecchia a cogliere le rose delle bellezze meridionali. Che rispondevano con enfasi alle richieste dei liberatori. Affascinati dal luogo, spesso, lasciarono un ricordo di quella loro assidua frequentazione, una traccia profonda del loro passaggio di conquistatori che cominciò a crescere tra i vicoli del borgo antico non riuscendo comunque a confondersi mai completamente con le altre “tracce’*, certamente più indigene. Così Galatina ebbe il suo primo problema razziale. Tra i vari optional, alle farfalle veniva richiesta la fellatio, una pratica di cui si favoleggia ancora oggi e per la quale erano divenute espertissime dopo le lezioni ricevute da Rosetta la bella, la maestra per eccellenza di quella pratica amorosa.
Per il cambio della “quindicina” l’ambiente si infervorava. Le ragazze giungevano puntuali in stazione con i lenti vagoni delle “littorine”. Ad accoglierle c’era sempre un gobbetto, inviato dalla casa. Lo chiamavano Uccio Penna, una sorta di attendente, uomo di fiducia di Rosetta che si incaricava di mostrare la nuova merce con brevi blitz in centro a sorbire il caffè in qualche bar o a pranzare da “Beccarisi”. Spesso, anche Rosetta accompagnava le sue ragazze “fresche” ed andava in giro portando a guinzaglio i suoi quattro volpini bianchi che davano all’allegra compagnia un vago sentore di Belle epoque: lo studiato spot pubblicitario coglieva sempre l’effetto voluto ed interrompeva il quotidiano tedio cittadino, eccitando le fantasie nei circoli dei signori che trasmettevano la notizia ai sonnacchiosi borghesi che per qualche tempo avrebbero volentieri disertato il tavolo verde per il più accogliente salotto di Rosetta.
Il civico 12 fu sbarrato anzitempo, molto prima delle puritane battaglie condotte dalla senatrice Merlin. Ci pensò un onorevole locale deputato della Dc che ricorse ad un escamotage per chiudere la casa: Rosetta era bella, ma analfabeta e quindi incapace di controllare le carte di identità dei clienti e la loro data di nascita. In quel luogo di perdizione - si disse - potevano capitare anche minorenni, senza possibilità di verifica. Non valse il fatto che in quelle faccende Rosetta aveva l’occhio esercitato e mai avrebbe consentito ingressi a ragazzini: se la bella Rosetta avesse almeno avuto la licenza elementare, l’onorevole avrebbe certamente perduto la sua battaglia. Basta, il civico 12 finì di esistere, almeno come luogo di appuntamento e con esso piazza Vecchia, che cominciò lentamente il lungo viaggio di non ritorno. Eppure, quando era fiorente e chiassosa, di li passavano le processioni più imperlanti, anche quella del Corpus e dei santi protettori Pietro e Paolo che - a dire la verità - ci andavano volentieri, memori forse della pietà con cui il loro Maestro aveva abbracciato quella tal Maddalena, una Rosetta di quei tempi.
La seduzione ha cambiato casa: dopo piazza Vecchia ci sono ancora languide carezze che si possono raccogliere in altre parti del borgo antico. Per averle, non c'è bisogno di carta di identità. In via Vittorio Emanuele da secoli si ingravidano uova, zucchero, latte e farina. È la miscela del pasticciotto, uno sformatino nemmeno troppo bello a vedersi che sprigiona una dolcezza a lungo cercata, il sogno di un abbraccio infinito con una vulva affettuosa. Non si sa da dove venga. Probabilmente era manifattura araba che vi stillò il profumo dei gelsomini, la calma frescura dei pini del Libano e il sole che si riverberava nelle lucenti tessere d’oro dei minareti. Il nome è maschile, ma ciò che sprigiona - la seduzione - è femminile.
Il Devoto-Oli non Io menziona, preferisce il diminutivo pasticcino che, nel nostro caso però è molto riduttivo. Deriva da “pasticcio” che rimanda a disordine o confusione nel lavoro. Ma anche qui siamo su una falsa pista perché non si “ingravidano" sconsideratamente uova, zucchero, latte e farina. Bisogna intanto amare tutta quella materia naturale, poi titillarla, come si fa con una bella donna, tentarla con lunhghe e appassionate carezze. Trasmetterle l’energia sensuale che scivola dalle braccia e giunge al cuore, mentre si amalgama l'impasto stendendolo sul piano, pronti a giacergli accanto, con i muscoli eccitati, dando e ricevendo piacere, fin quasi all’orgasmo. Il pasticciotto porta nel suo ventre tutto ciò: la sintesi primordiale degli elementi innamorati, il peccato lussurioso o il fruito proibito con cui l’uoino si sublima e si avvicina pericolosamente al Cielo. Mangiarne, significa ingoiare Dio che non è, come nel cerimoniale cattolico, la ricerca della trascendenza, ma una congiunzione carnale con la vita.
La chiesetta sconsacrata è in corso Garibaldi: il tarantolismo abita ancora qui. Che ne è stato di Maria di Galatone, incantata da una serpe mentre camminava su un viottolo di campagna sotto il sole ardente, o di Cristina di Nardo, punta dal ragno mentre sbucciava le fave, o di Filomena di Castrignano pizzicata accanto alla trebbiatrice del grano? Forse saranno morte da tempo e non ballano più la danza circolare per ringraziare San Paolo. O forse no, qualcuna di loro ancora verrà quest’anno, nel giorno canonico, a gridare la pena del “rimorso” e a ricordare il dolore della prima volta. Indulgente al richiamo di quelle ultime schegge di folklore salentino, la chiesetta aprirà i battenti, diventando teatro del tormento e dell’estasi, mentre amore e morte “ripeteranno” la cantilena: Stu pettu è fatto cimbali d'amuri, suspiri e duluri è lu curi miu feritu a morti. Galatina, “terra del rimorso”, ha sempre accolto i rap dell’underground contadino che giungevano in città da tutto il Salento, scivolando come su un piano inclinato. Il ragno, il terribile latrodectus tredecim guttatus aveva procurato gli effetti euforizzanti, o la serpe velenosa che di notte rubava alle donne, succhiando dalle loro mammelle avvizzite, il poco latte prodotto da una dieta di pane e cipolla. Il triste destino di Maria di Galatone lo scrisse in bella prosa scientifica Ernesto De Martino. Maria era giovane e bella. E anche innamorata, ma tanto povera. Un uomo le sorrise per strada e lei, che aveva pianto per dieci secoli, senti per la prima volta l’amore, quella forma imperiosa che ha un sapore di sdrucciolevole infinito. Ma fu un amore sfortunato. Sua madre lo contrastò e fu irremovibile nella decisione. La ragazza fu spezzata dal dolore e divenne ogni giorno più triste. Fino a quando non le apparve San Paolo clic la invitò a seguirlo. “Vieni con me. balla”, le disse. E lei ubbidiente ballò per lui tutta la vira, come Salomè. Da quel giorno il suo destino si compì e il pellegrinaggio a Galatina, nella chiesetta di corso Garibaldi, divenne un appuntamento annuale: fu il suo tributo di dolore al Santo-Amante. Perduto l’amore terreno, la giovane donna sublimò in ciclo quello che non poteva avere sulla terra. E la danza insieme con i colori e con la musica furono la sua sola terapia, una ricetta consigliata dal contadino-farmacista. Le fughe dalla realtà oggi avvengono artificialmente: acido, coca o ero soro i veicoli principali con i! contorno del drep truck, la sintesi sinfonica punteggiata di esplosioni musicali che eccitano i sensi. Cambiano le mode, ma il tarantolismo rimane e si riflette so ito i vapori e i decibel che annebbiamo le volte delle discoteche, sul parabrezza del preziosissimo fuoristrada o sul nichel e sul cromo di una Honda supercarrozzata. Le tante Marie che svernano vicino alla chiesetta di corso Garibaldi sanno, come ha scritto il poeta Lucio Romano, elle ora i ragni non pungono più ma i figli dei contadini cruna volta / lì folgora talvolta sui sedili / dietro un muro di cinta, ancora nei campi / una polvere bianca un ago nelle carni / come una scossa elettrica (12 febbraio 1993)"
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