"Ripensare la formazione?"
Mi sembra evidente che il discorso programmatico al Senato e alla Camera dei deputati del presidente Conte, in estrema sintesi, rappresenta un programma ed un messaggio che, in una società aperta, anche se al suo fondo c’è sempre una contrastante concezione filosofica politica, o una diversa filosofia politica, possa fare breccia più di altre filosofie che, nel momento attuale, sono state condannate. Una condanna pure nei confronti di chi non ha dimostrato che il politico diventa veramente “Politico” se sa divenire il “correttore di un mondo imperfetto”. Vi è riuscito, Conte, a mio modo di vedere, in parte, attirando l’attenzione verso l’impegno per nuove opportunità di scelte politiche ed amministrative con il coinvolgimento di ogni cittadino nell’attuale situazione di crisi.
Mi sembra, secondo i presupposti iniziali, che si voglia dar vita ad un’intera cultura che deve far propria una singolare lotta per i diritti se si vuol dare senso ai precetti costituzionali o alle Dichiarazioni universali che si vanno continuamente evocando. Una specifica garanzia sociale che deve riguardare, sotto la condizione dell’effettività, non i diritti degli altri ma dei nostri diritti, di un intero ordinamento e del suo sistema normativo. Bisogna considerare, però, che la garanzia sociale consiste nell’azione di tutti per assicurare ad ognuno, ad ogni individuo, indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla religione, dalle opinioni politiche e così via, il godimento e la conservazione dei suoi diritti. “L’amore di sé”, come forma di “egoismo maturo” che educa a riconoscere il diritto degli altri. E’ il sentimento dei propri diritti a richiedere il rispetto dei diritti fondamentali degli altri che è dovere verso se stessi e verso la comunità. Più che percorsi di una razionalità sempre più debole e sempre più limitata, è la cultura di questo sentimento, di questa lotta per i diritti, la strada per ridurre l’assolutizzazione e per aumentare l’universalismo. Il consenso dei cittadini governati non è più solo una circostanza positiva, legata direttamente alla benevolenza del sovrano, ma invece, diritto di ciascuno, riconosciuto e rispettato.
L’organizzazione degli studi, del sapere, le tendenze in atto nella società rendono sempre più problematico – nonostante le apparenze contrarie – il lavoro di lettura e comprensione del sociale. Il problema è quello di ripensare la formazione? Se così fosse occorrerebbe allora compiere uno sforzo di riflessione intellettuale che ribalti il tipo di ragionamento – e di prassi politica, di politica educativa e di politica culturale – che è stato fatto finora nei nostri paesi occidentali e soprattutto in Italia ove, molto spesso, le lotte all’interno dei vari campi disciplinari accademici hanno determinato che ciascuno avanza la candidatura per imporre la propria egemonia teorica. Ma anche le stesse ragioni della pratica e della tecnica si trovano ad essere prive di radici, che non siano quelle costituite dalle organizzazioni o dalle corporazioni degli addetti. Così che lo stesso profilo delle mansioni, delle carriere e delle retribuzioni viene disegnato con pochi riscontri obiettivi con le ragioni del servizio o con le funzioni sociali e culturali che vi sono sottese e che stanno alla base della crescita di questo specifico segmento del mercato del lavoro.
I mali da cui, e da tempo, è afflitta l’attività scolastico - educativa in Italia non ci deve far allarmare, se non il tempo necessario, per richiamare alla mente esperienze e fatti che ci hanno fatto impallidire di rabbia e arrossire di vergogna. Dunque, il tono culturale che si è visibilmente abbassato, per tutti gli ordini e gradi della scuola, dalle elementari, alle medie, alle superiori e all’Università ci dice che si sta attraversando un periodo di crisi risaputa; e di poco conforto ci arreca la constatazione che anche in altri paesi dell’Occidente si riscontra un andamento similare, a meno che non si voglia adottare, passivamente inerti, il detto “mal comune, mezzo gaudio”, che, lungi dall’imprimere un impulso nuovo, potrebbero portare all’assuefazione e alla rinuncia. Ora la scuola riprende ad essere un poco più efficiente e più seria? Nel dire queste cose, non ci lasciamo prendere da nostalgia, non siamo pessimisti ma realisti, speranzosi, forse addirittura ottimisti. Sarebbe strano, inaccettabile, che la nostra scuola, quella del nostro tempo, quella che vede masse giovanili sempre più folte coltivare gli sport, anche quelli più onerosi, rinunziasse poi ad esigere qualche sforzo per la formazione umana, sociale e professionale dei giovani. Infatti essi non lesinano nel curare l’allenamento perché porta al rafforzamento fisico, a migliorare appunto le prestazioni per riuscire vincitori nello stadio. E possiamo mai noi non richiedere un maggiore apprendimento degli studi, far mancare loro quella ginnastica mentale che li formi, molto più della ginnastica fisica? La risposta è già nella domanda, salvo che non vogliamo rassegnarci ad allevare dei "Crazy Horses", dei cavalli pazzi o scemi. (G.D’Oria)
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