Campioni!
Era la sede della squadra di calcio del Rione Italia, ed era una sola stanza neanche 4x4, isolata in mezzo al buio pesto e ai bordi della cava, ora chiusa, davanti al campo sportivo. Non c’era nessuna costruzione nei paraggi e non era fornita neanche da luce elettrica. Le nostre riunioni per la discussione della tattica, dei moduli e dei ruoli, le facevamo al lume di candela. Avevamo comprato con enormi sacrifici 10 completi di calcio tutti uguali, tutti a righe, il completo del “portiere”, il mio, l’avevo scelto io, tutto nero, calzettoni bianchi e colletto della maglia bianco.
Avevamo anche comprato 11 paia di scarpe uguali “ pantofola d’oro”. Il portoncino di quella stanza, l’avevamo appena riparato, per chiuderlo bisognava sollevarlo un po’, poi un bel catenaccio ci faceva stare tranquilli, dormire tranquilli perché lì lasciavamo tutto su quelle panchine in legno che giravano intorno alla stanza e su cui ognuno aveva scritto al proprio posto, il proprio nome.
Si giocava ogni domenica in campi improvvisati in posti diversi, una specie di campionato tra i vari quartieri del paese. Giocavamo sul vialone non ancora asfaltato adiacente il prospetto del cimitero, giocavamo su quel bruttissimo campo “sotto il ponte”, giocavamo “sulla via di Galatone” nei pressi dove c’è il liceo classico, allora aperta campagna.
Le “porte” erano pezzi di legno raccolti qua e là e uniti con chiodi, oppure semplici pietre che segnavano la lunghezza della “porta”, l’altezza era a discrezione della squadra e generalmente era “goal” per chi aveva calciato, era “fuori” per chi avrebbe dovuto “parare la palla”.
Quella domenica giocavamo contro la “via di Galatone” una partita difficile che volevamo vincere a tutti i costi, il “campo” era il “ loro”.
Avevamo preparato la tattica, avevamo fatto preparazione fisica, studiato mosse e contro-mosse. Eravamo a 1000 quando ci trovammo davanti al BAR dove ci radunavamo per procedere da lì tutti insieme e a piedi verso la “sede”.
Il portone era aperto, era stato forzato e dentro non c’era più niente.
L’amarezza e la delusione si tagliava a fette, c’eravamo un po’ spenti, un po’ scoraggiati, sin quando qualcuno urlò in faccia a tutti noi : NON CI FERMERANNO.
Bastarono quelle parole ed il nostro entusiasmo questa volta superò i 1000.
Qualcuno giocò in mutande, qualcuno con la canottiera, qualcuno con i vestiti della domenica, qualche altro con le scarpe nuove.
Uscimmo dal campo, sporchi, sudati, magliette strappate e scarpe rotte.
Ma tutto si perse in quella gioia, in quella festa di fine partita che cominciò subito dopo il fischio di chiusura. Sembravamo appena tornati da una guerra, che avevamo vinto.
Portammo a casa la coppa e dopo qualche tempo, ritrovammo anche le cose rubate.
Era stato uno della nostra squadra, forse per delusione, forse per la rabbia, la frustrazione provata nel non giocare da “titolare”. Lo perdonammo, tornò tra noi e qualche volta giocò anche. Ma “il calcio” non era per lui come non era per noi.
Ci divertivamo, forse sognavamo, qualcuno aveva anche buone qualità ma nessuno riuscì a farsi strada, nessuno riuscì ad emergere, far carriera.
Dopo qualche anno avevamo tutti appeso le scarpe al chiodo, altri interessi, altri problemi, altre responsabilità, solo qualcuno con più passione rimase a calcare ancora campi e campetti di calcio. Mi è capitato sere fa di accompagnare mio figlio a “giocare a pallone”, in un campetto non molto lontano e lì, non ci credevo ai miei occhi, ho incontrato un mio vecchio compagno di squadra. Faceva esercizi, faceva riscaldamento prima di entrare in campo.
Avevamo giocato una vita insieme per cui mi fermai a vedere un po’ di partita non nascondendo un pizzico di invidia.
Quell’ “anziano”, riconoscibile dai capelli bianchi, ancora arzillo, si muoveva come allora, lo stesso tocco, lo stesso stile e sono sicuro che il fatto che lo stavo a guardare gli faceva immenso piacere. Era passato appena un quarto d’ora, quando con un balzo felino e un tiro da vero campione, infilò la palla all’incrocio dei pali, tra lo stupore di tutti.
Cominciò a saltare di gioia e urlare, proprio come allora.
Rivolse lo sguardo verso di me ed io calcai “indegnamente” quel campo erboso e un po’ umido e corsi ad abbracciarlo. Come allora.
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