L'estate del '63

Quel tramonto fu di 1000 e più colori, 1000 e più sfumature. Quando il sole finalmente sprofondò nel mare, scese un po’ di aria fresca e si riprese a respirare. Verso l’imbrunire c’era ancora tanta gente in spiaggia e tanta gente in acqua  A malincuore caricammo tutto e ci dirigemmo verso la macchina mentre già spuntava la luna. Facemmo il giro più lungo pur di continuare a vedere il mare. Le prime luci dei lampioni si riflettevano nell’acqua quando imboccammo la prima curva che lasciava alle nostre spalle il mare.  La stanchezza prese il sopravvento e quando arrivammo a destinazione fu davvero triste svegliarsi. Neanche il tempo di riprenderci un po’ e già la nonna toglieva la pasta dal fuoco e cominciava a chiamare tutti a raccolta intorno al tavolo. Cinque metri di tavolo, un paio di prolunghe, di aggiunte e un po’ di spessori per non farlo ballare, una tovaglia  quadrettata rossa, un bottiglione di vino nero che più nero non era possibile e una “vucala” d’acqua tirata fresca dalla cisterna.
Un profumo di cucina si diffondeva tra le “carrare” delle campagne vicine mentre la luna si infilava nella pergola che c’era sopra di noi giocando con quei grappoli di uva bianca che scendevano a picco tra foglie e rami. Qualcuno intanto aveva messo l’anguria al fresco nella cisterna, assicurandola per bene in un “panaro” legato ad una corda. Qualche fatto, qualche novità, qualche brindisi tra quegli alberi di “fico” d’ogni specie che ogni tanto abbandonavano a se stessa qualche foglia mentre cicale e grilli erano impegnati in una serenata al chiaro di luna. Quell’annata era stata secca, i canali che costeggiavano la stradina non asfaltata, non si erano mai riempiti d’acqua e considerata la serata, non avevano neanche l’intenzione.  Pasta fatta in casa, sugo fresco e qualche gallina che aveva lasciato le penne. Di “brucacchia” condita con sale, olio e aceto dopo un po’ non restava più traccia. La visita dei vicini di campagna chiudeva la serata e  qualche volta il suono della “zambuca” accompagnava con le sue dolci note una canzone che conoscevamo tutti. Partiva una voce: “ quel mazzolin  di fiori” e noi tutti  -"che vien dalla campagna” – e via a squarciagola mentre il vino cominciava a fermentare. Non erano ancora le 11 di sera quando il silenzio della campagna era rotto solo dal rumore aspro e stonato di chi russava.  
Avevamo fatto un segno sul muro, quando il sole toccava quel segno eravamo in piedi ed erano appena le sette. Era intanto ripresa la vita di sempre, orto, olive, vite e tabacco, e noi a dare una mano nelle piccole cose che avevamo imparato a fare. Passava così l’estate, qualche giorno al mare, il resto in  campagna.
In quella 600 abarth di mio zio con lo scorpione disegnato sul cofano, a volte eravamo anche in otto e più.  Mio padre invece rimase tutta la vita fedele alla sua “bici” e con quella veniva in campagna la sera, spesso senza luce e con quel rumore alla catena che ci dava il segnale del suo arrivo quando ancora era a un chilometro di distanza. Con le prime piogge di fine settembre tornavamo nella nostra casa al paese e lì cominciavano i preparativi per la scuola che cominciava il primo ottobre. Era passata un’altra estate in quella campagna della nonna, dove figli e figlie andavano e venivano, dove cugini e cugine davano spazio ai propri sogni, alla propria allegria, alla propria spensieratezza, lasciata lì, rimasta ancora lì in quella vecchia campagna con il bagno all’esterno recintato con canne legate fitte, fitte. Con quella pergola dai grappoli dorati, con l’altalena appesa ad un ramo di un albero di “fico”, con quegli alberi di “cachi”, con quegli alberi di melograni rossi, con quei racconti di fame e di guerra, di sudore e di terra.

Giovedì, 26 Dicembre, 2013 - 00:03