Chi paga? Lo faccia chi può
Ciao Dino. Ho letto e riletto le lettere di Pierluigi Serra ed Antonio M., e trovo nella loro straordinaria semplicità l’essenza della nostra epoca. Il mare di Lampedusa ha portato ovunque le sue onde, lasciando sommersi i corpi e sulla cresta le voci. Siamo capaci di ascoltare? Siamo capaci di udire i lamenti come fossero i crepitii della nostra coscienza? È necessario enfatizzare le antitesi o le diverse visioni del problema per trovare, alla fine, “nella saggezza della morte” il filo della storia.
Secondo taluni, la povertà, ovvero la perdita del nostro essenziale livello di benessere materiale, dovrebbe esimerci dal proporre gesti esemplari, nati non dalla retorica pesudo-intellettualistica di chi tratta le faccende degli uomini avendo vissuto dietro una scrivania, libri in mano, magari in una agiatezza da “tè pomeridiano”, ma da chi si è confrontato quotidianamente con il limite ed il senso della vita; probabilmente prendendo “dagli ultimi” più di quello che ha dato. Eppure, mai potremmo affermare che chi “nega un euro” per una sepoltura che abbia un valore oltremodo simbolico, non voglia concedere e riconoscere dignità alla morte di quelli uomini.
Dalla lettura e l’ascolto delle vicende dei migranti, scaturisce una profonda frustrazione che ci impedisce di cogliere appieno il dramma che si consuma nell’anima e nel corpo di ognuno di loro. A nessuno interessa il pietismo fine a se stesso, e nessuno è naturalmente portato all’esclusione, ma credo che le reazioni siano oramai dettate da un senso di confusione determinata da una puntuale produzione televisiva del dolore, fredda, commercialmente calcolata. È come se la televisione “uccidesse la morte” narrandone il contorno, con gli esiti didascalici delle dichiarazioni di circostanza, delle intenzioni, delle probabili soluzioni.
Dovrebbero far parlare i migranti, per ore. Ascoltare le storie non come in uno spot televisivo, flash di umanità spalmati in pochi secondi, ma con l’intenzione di creare un confronto. Perché al confronto delle ricchezze si affianchi il confronto delle povertà.
Abbiamo (ovviamente generalizzo) sempre osservato ed ammirato la ricchezza degli altri, creando su quel presupposto una scala di valori che ha determinato scelte e comportamenti. In questa scala ideale abbiamo forse creduto di occupare i pioli più alti, lo sguardo rivolto verso l’alto, verso l’altrui ricchezza materiale. Ora la scala inizia a vibrare e sotto di noi si affollano “gli altri”, persone che non chiedono un euro per essere sepolte, ma chiedono di poter respirare la dignità della propria vita.
Chi paga? Domanda terrena, colma di pragmatismo ed apparente cinismo. Deve pagare chi può, perché se la ricchezza non è, e non deve essere, una colpa, non possiamo fare in modo che lo sia la povertà, la onesta povertà degli ultimi.
La scala vibrerà sempre più forte, non per la retorica delle mia affermazioni, ma per una ragione numerica, una banale ma fondamentale ragione numerica. L’affollamento degli ultimi, uomini e donne e bambini di un continente Africano usato ed abbandonato, potrebbe far rompere la scala; e pensiamo cosa sarebbe la nostra ricchezza e la nostra povertà.
Se morire è una colpa, se vivere è una colpa, se nascere è una colpa, può accadere di trovare un euro per ricaricarsi il telefonino e negarlo invece alla propria coscienza.
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