I vincitori 'devono' vincere e i perdenti perdere. Sempre?
Accusateli pure di essere dei ragazzini avventati e insolenti con il gusto underground della ribellione; associateli se volete a quella insoddisfazione del buon vecchio punk inglese o a quel nauseante edonismo dei capelloni che negli anni Sessanta urlavano contro i soldati americani in Vietnam. I borghesotti perbenisti e le argute signore impellicciate hanno alzato le sopracciglia e si sono scambiati sorrisetti di commiserazione, incubati nella calda aureola del liberismo economico; hanno probabilmente gettato uno sguardo distratto e bonario su queste fastidiose goliardie, ferrei nei consolidati valori vittoriani della rispettabilità e della onesta considerazione sociale. E quello sfrenato e sgargiante benessere materiale, che negli anni Cinquanta ha creato il famoso “ceto medio”, ha cementato il tutto, regalandogli una patina di vernice laccata.
Il consumismo è diventato uno stile di vita, quello del miglior acquisto al miglior prezzo; il capitalismo una costante e rosea promessa di progresso, sia in termini economici che umani. Touchè. Senz’altro la soluzione più logica; il ragionamento richiede poco sforzo, anzi non ne richiede affatto perché fondamentalmente non dovrebbe servire un gran cervello per seguire questo fiammante undicesimo comandamento made in China. Se poi è anche supportato dai governi di tutto il mondo, la strada imboccata nell’ultimo cinquantennio deve essere quella giusta.
Da Blair alla Thatcher la priorità di fondo è sempre stata quella di allargare il più possibile il terreno di gioco degli affari, seguendo cinicamente l’idea anti keynesiana che il denaro produce autonomamente altro denaro, addirittura meglio se lo stato impiccione volge altrove il suo sguardo. Quindi l’economia si autogestisce, come si suol dire “gira”, o almeno glielo si augura. Sono le conseguenze di questa incontrollata giostra che i No-Global criticano: lo sfruttamento e la miseria dei ragazzini che lavorano per cinque dollari l’ora, il divario sociale vertiginoso, la pubblicità martellante, l’omologazione della cultura, la scomparsa delle identità locali e i disastri ambientali. Criticano il mondo così come lo propongono loro, un pacchetto all-inclusive in dotazione al cliente.
Possiamo convenire che la giovinezza rivendica il suo diritto di dissentire per principio a volte e non per piena coscienza. Possiamo tacciare questi No-Global di non proporre alternative attuabili allo stato delle cose e di criticare molto passivamente e dunque molto comodamente. Possiamo anche accusarli di incoerenze, visto che molti di loro non sanno quanti e quali benefici ha apportato alla loro stessa vita il mondo che disprezzano così aspramente. Ma la giovinezza, nella sua ingenua e spavalda sincerità, ha sempre da insegnare: badate al mondo che stiamo costruendo. Guardatevi intorno e chiedetevi se è tutto completamente ragionevole e se i No-Global sono solo dei viziatelli esaltati.
La vera domanda non è essere o non essere d’accordo con le scarpe Nike, la Coca-Cola, l’ILVA di Taranto, i lavoratori sottopagati, ma essere o non essere d’accordo a vivere senza alcuna remora in una società in cui vale la legge del più forte, in cui i vincitori vincono e i perdenti perdono, sempre.
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