La Chiesa e l’Impero dopo la vittoria di Costantino a Ponte Milvio
Con la riforma dell’Impero operata da Diocleziano l’Italia venne integrata nel sistema delle province imperiali, mentre la città di Roma faceva parte a sè, amministrata per un raggio di cento miglia da un Prefetto insieme al Senato, le cui prerogative erano ormai ridotte a quelle proprie di un Consiglio municipale, in quanto raramente veniva richiesto il suo parere su problemi di governo. Nello stesso tempo un grande sviluppo, non soltanto di carattere urbanistico, era assicurato a Milano ed alle altre città dove resiedevano i Tetrarchi che governavano l’Impero.
La religione cristiana continuava la sua lenta ed inarrestabile diffusione, nonostante le ricorrenti persecuzioni. Particolarmente violenta si rivelò quella iniziata nel 303 sotto Diocleziano, la quale comportò supplizi di vario genere, esclusione da impieghi pubblici e da cariche di ogni ordine e grado, legittimità di qualunque azione intrapresa contro i “colpevoli”, ai quali era tolta ogni capacità di adire le vie della giustizia per riparazione di danni, per adulterio o furto. A tutto questo il cesare d’Oriente, Galerio, aggiunse l’obbligo di sacrificare agli dei, la distruzione delle chiese e la pena capitale.
La battaglia di Ponte Milvio [28 ottobre 312] ebbe due effetti importanti: 1) troncò ogni possibilità per Roma e per l’Italia di recuperare un effettivo primato nell’Impero; 2) costituì la premessa all’editto di tolleranza religiosa, emanato a Milano da Costantino nel 313.
Col sostegno di questo importantissimo provvedimento imperiale, la forza di espansione propria del Cristianesimo divenne inarrestabile e cambiò l’assetto religioso del mondo antico. Infatti il vuoto politico creato a Roma e in Italia, che si andava sempre più accentuando, venne in breve riempito dalla Chiesa, la cui struttura organizzativa, assumendo caratteristiche proprie dell’Impero, portò ad una sempre maggiore affermazione del primato del vescovo romano.
L’editto di Milano originariamente era rappresentato da una serie di generiche istruzioni impartite dall’imperatore agli organi di governo. Solo successivamente gli augusti Costantino e Licinio fissarono in un documento a forma di lettera le istruzioni per i rispettivi funzionari sull’atteggiamento da tenere nei riguardi dei cristiani.
Venne così proclamata la libertà di coscienza e, quindi, la liceità della religione cristiana in piena uguaglianza con tutte le altre confessioni; vennero precisate le riparazioni da compiersi per i danni patiti dai cristiani a causa delle persecuzioni subite, cioè la restituzione agli stessi delle chiese e dei beni confiscati, un indennizzo a chi li avesse eventualmente acquistati in precedenza; fu anche rivolto un pressante invito ai governatori a favorire comunque il Corpus Christianorum.
Col questo riconoscimento di liceità dato al Cristianesimo e con le misure riparatrici Costantino pagava da militare leale, ma con mentalità ancora pagana, il suo debito di riconoscenza al Dio dei cristiani, che riteneva l’avesse fatto vincere. Tuttavia, pur cercando di non alienarsi il mondo pagano, egli intraprese fin dal 313 una politica che mirava a favorire il Cristianesimo sia con iniziative ed interventi diretti in suo favore sia mediante l’ispirazione cristiana di molte leggi. E accentuò ulteriormente questa politica quando, dopo la vittoria definitiva su Licinio (324), rimase solo al vertice dell’Impero. In questa fase edificò nuove chiese, esentò i chierici dai munera pubblici, istituì un foro ecclesiastico con effetti giuridici, adottò simboli religiosi ben accetti alla religione cristiana, riconobbe alle chiese il diritto di ricevere donazioni, introdusse il riposo domenicale, vietò l’arte divinatoria privata.
Pur facendosi battezzare soltanto sul letto di morte e dimostrando grande tolleranza verso tutte le religioni, Costantino si preoccupò seriamente delle eresie e degli scismi che incrinavano l’unità del Cristianesimo.
Pertanto nel 314 egli convocò il Concilio di Arles (nel sud-est della Gallia), che nelle sue intenzioni doveva essere una sorta di “tribunale” dei vescovi dell’Occidente romano, incaricato di affrontare – e possibilmente risolvere – la questione donatista, cioè relativa al movimento scismatico promosso dal vescovo di Cartagine, Donato, secondo il quale non potevano essere riammessi alla celebrazione dei sacramenti i sacerdoti indegni o apostati, che avrebbero dovuto essere ribattezzati. E ancora nel 325 convocò a Nicea (nell’Asia Minore) e lui stesso persiedette il primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa, che cercò di superare la controversia scatenata dall’arianesimo, l’eresia originata dalla predicazione del prete libico Ario, che affermava la natura non pienamente divina di Cristo, negando la consustanzialità di Padre e Figlio.
Inoltre nel 330 Costantino procedette alla creazione di un’altra capitale dell’Impero a Bisanzio, che ribattezzò col nome di Costantinopoli, nelle sue intenzioni nuova Roma cristiana, contrapposta all’antica Roma di radicata tradizione pagana.
Tutto questo, però, non si può dire che producesse una crescita spirituale ed evangelica della Chiesa. Infatti ne derivò una interpretazione cristiana del culto dell’imperatore, per cui si arrivò a considerare Costantino nuovo Mosè, vescovo, vicario di Cristo, uguale agli Apostoli e addirittura santo (come ancora oggi è considerato dalla Chiesa ortodossa). Questo favorì il sorgere del cesaropapismo, che graverà per secoli specialmente sull’Oriente cristiano.
Quindi la Chiesa, una volta liberata dall’oppressione dei persecutori, conobbe una prova più temibile dell’ostilità: la protezione dello Stato. Essa divenne così struttura di potere, che adottò per il proprio governo i criteri dell’amministrazione imperiale romana. La collaudata arte politica romana del governare divenne il modello seguito per amministrare la Chiesa, della quale venne così snaturato il carattere del ministero apostolico.
Le ricchezze offuscarono la testimonianza evangelica e resero appetibili i ministeri ecclesiali per motivi non pastorali. Dopo Costantino il patrimonio della Chiesa romana crebbe a dismisura per la liberalità dei fedeli e soprattutto per la generosità di altri imperatori e capi di stato. Le stesse ricchezze permettevano agli ecclesiastici di compiere abbondanti elemosine, di moltiplicare gli edifici di culto e di sfoggiare un lusso talvolta scandaloso.
Non si può dunque affermare che la perfetta sintonia tra religione e potere politico, instauratasi nel mondo romano 1700 anni fa, abbia avuto soltanto esiti positivi per la cristianità, poiché sotto certi aspetti non ha proprio favorito l’autentica realizzazione del messaggio evangelico.
Purtroppo nel corso dei diciassette secoli successivi alla battaglia di Ponte Milvio molto frequentemente gli Stati nazionali e la Chiesa hanno stabilito fra loro non solo rapporti di reciproco rispetto, ma anche relazioni di grande favore da parte dei primi verso la seconda. Relazioni queste non sempre generate da una vera accettazione dei principi evangelici da parte dei governanti, la cui condotta a volte è stata discutibile sia dal punto di vista ideologico che da quello morale. Questi governanti, incautamente considerati “uomini della Provvidenza”, si sono mostrati generosi verso la Chiesa a fini solo elettoralistici, se non addirittura considerandola un valido instrumentum regni.
E’ quanto mai auspicabile che in futuro la Chiesa non richieda né accetti favori o donazioni dagli Stati nazionali e dagli uomini politici.
L’attuale vescovo di Roma, FRANCESCO, il quale ha affermato di non dirigere la Chiesa ma di presiederla “nella carità”, rifiuta ogni lusso e impronta il suo stile di vita alla povertà evangelica, indicando al popolo cristiano l’autentica strada della conversione. Questo induce a ben sperare.
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