Dalla corsia al letto, storia di un’infermiera e della sua lotta contro il covid-19
Il virus, in silenzio, senza chiedere il permesso, si è insinuato nel mio corpo; non è stata una cosa leggera, anzi, vi assicuro che mi ha fatto capire, ancora di più, come questo nemico invisibile possa logorare la carne e l’anima.
30/03, ore 13.00. Mi viene comunicata la positività al covid-19 dal dottore Tundo, con la delicatezza e pacatezza che lo hanno sempre contraddistinto. Doccia fredda. Mi sento stordita. Ansia, paura, panico si susseguono velocemente. Il pensiero di aver potuto contagiare mio marito, mio figlio, mia madre, mia suocera, tutta la mia famiglia, mi ha stretta in una morsa (grazie a Dio questo non è successo, ero riuscita a proteggerli tramite il distanziamento fisico fin dall’inizio dell’epidemia). Da alcuni giorni mi sentivo strana e attribuivo la sensazione alla stanchezza accumulata in tanti giorni e tante ore trascorse in corsia. L’emergenza Covid-19 ci ha travolto senza darci la possibilità di capire.
01/04. La mia situazione peggiora e arriva il ricovero. No, non è un pesce d’aprile. Stesso reparto in cui lavoro, Malattie Infettive del “Santa Caterina Novella” di Galatina, dove fino a qualche giorno prima facevo squadra con tutta l’equipe. Dalla divisa si passa al pigiama, dal vociare piacevole e indaffarato del personale in corsia mi ritrovo in una stanza di degenza nella solitudine assoluta e con un silenzio insolito. Sono sola dietro la finestra, come in un acquario. Fuori c’è l’esplosione della natura che annuncia una primavera, quella salentina, che non ha limiti, perché la natura è cosi, non si ferma, anzi, respira a pieni polmoni; per me invece comincia il trascorrere di cupe giornate, quasi senza grazia, come fossero giornate da buttare, inferni da dimenticare, sofferenza infinita. Aver contratto questo virus non è da poco conto, fino ad oggi solo in Italia siamo quasi 220.000 persone e nel mondo si son superati i 4 milioni di contagi. Entro a far parte di una casistica della Protezione Civile. Un positivo in più nella colonna dei contagi e non vedo l’ora di passare a quella dei guariti.
Nella solitudine della mia stanza d’ospedale e “nell’ascolto del silenzio”, come ha detto Papa Francesco, ho avuto il tempo di pensare, riflettere, meditare e pregare (come hanno fatto tante persone per me) nella desolazione del vuoto. È strano passare dal percorrere più di diecimila passi al giorno, nelle tantissime ore trascorse in corsia, al riposo assoluto dei primi giorni di ricovero quando, senza mascherina per l’ossigeno, mi accorgo che non riesco poi a respirare così tanto bene. Il destino mi ha fatto cambiare postazione. La febbre, la tosse, non sento gli odori, perdo il gusto, mi stanco con niente. In tutto questo sconforto, che adesso vorrei solo dimenticare, la solitudine si dirada, arriva il primo biglietto di incoraggiamento “Siamo con TE”, che mi dà forza e coraggio; “nei nostri occhi troverete la forza che vi serve…e nelle nostre parole la speranza di un futuro migliore”, “non vedete più i nostri sorrisi, abbiamo imparato a sorridere con gli occhi”, frasi scritte sul dorso delle tute bianche a protezione biologica che sono indossate scrupolosamente e con tanta sofferenza dal personale che lavora in “zona rossa”. Il pensiero di chi ti pensa ti dà forza. Il vuoto è riempito dal sorriso degli occhi spauriti di tanti colleghi e colleghe che fanno la spola per colmarlo. L’assenza degli affetti familiari e non, assenti per ovvie ragioni (ma sempre presenti con tante telefonate e videochiamate), ti fa un po’ cadere nello sconforto, ma un caffè e un pasticcino, che arrivano inaspettati, mi dicono che anche qui sono in famiglia. Va meglio, respiro meglio, ho riposato, anche se gestire tante emozioni non è stato semplice. Sono state tre settimane di montagne russe. Poi arriva la Pasqua di Resurrezione e rinascita, ma che purtroppo è caratterizzata dal peggioramento clinico di un amico e collega, ricoverato nella stanza di fronte e che con urgenza è trasportato in rianimazione. Angoscia senza misura, anche per me quasi pronta alla dimissione. Ora anche lui sta meglio ed è in fase di ripresa. Il 13/04 il primo tampone negativo, il 14/04 secondo tampone negativo, ancora qualche giorno per fare alcuni esami e poi il rientro a casa.
Cari familiari, cari colleghi e care colleghe, cari amici e care amiche: sono guarita. Ritorno al lavoro, ma la mia mente, i miei occhi e il mio cuore non cancelleranno mai cosa hanno visto, provato e vissuto. Vi ringrazio dal profondo del cuore per la premura dimostratami. Dobbiamo essere pazienti. Noi in reparto continueremo a fare il nostro lavoro. A voi, solo una richiesta da chi non vorrebbe rivivere gli ultimi mesi: rispettiamo le regole insieme e sicuramente i dati statistici miglioreranno (si spera).
Oggi, 12 maggio 2020, giornata internazionale dell’infermiere, permettetemi di salutarvi citando Florence Nightingale (1820-1910), “la signora con la lanterna” considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna: “L'assistenza infermieristica è un'arte; e se deve essere realizzata come un'arte, richiede una devozione totale e una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano il tempio dello spirito di Dio”.
Vi prendo tutti e tutte in un grande abbraccio virtuale.
Tweet |