"Perché voterò No al referendum costituzionale"

(Riceviamo e Pubblichiamo) Il prossimo 4 dicembre i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per approvare o respingere con il loro voto la riforma costituzionale promossa dal "governo Renzi". Si tratta di un tema molto delicato attorno al quale è bene fare chiarezza. Vincenzo Russo, avvocato e dottorando di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi di Genova, spiega, con la formula della domanda e risposta, le ragioni del suo "NO".
Perché questo referendum è così importante?
Ogni occasione di esercitare il proprio diritto di voto è significativa, e i referendum non fanno eccezione. Anzi, essi sono particolarmente importanti perché costituiscono uno dei pochi strumenti di democrazia diretta previsti dal nostro ordinamento, vale a dire istituti giuridici attraverso cui gli elettori possono pronunciarsi in prima persona su una questione politica, senza dover ricorrere all'intermediazione dei rappresentanti eletti.
Quello del 4 dicembre, poi, è di grande importanza poiché si tratta di un referendum c.d. "costituzionale" e, cioè, interviene su una riforma destinata a modificare la Costituzione, che è la legge fondamentale dell'ordinamento. Ecco perché è opportuno che tutti i cittadini esprimano la loro opinione in merito, recandosi alle urne.

L'esito referendario potrà avere secondo Lei ripercussioni sul governo?
Credo che non sia questo il punto. Interpretare il referendum come un voto a favore o contrario al governo in carica è - a mio avviso - un modo distorto di fare informazione e di esortare al voto gli elettori. Bisognerebbe piuttosto sforzarsi di spiegare le ragioni del "SI" e del "NO", discutendo sulle conseguenze giuridico-costituzionali che scaturiranno dall'una o dall'altra opzione di voto. La questione è dunque tecnica e non merita di essere malamente travisata.
Per i sostenitori del "SI", una delle ragioni per cui votare a favore della riforma è perché questa semplificherà il funzionamento dell'apparato politico-istituzionale del Paese. Perché Lei non è d'accordo?
Ci sono termini che siamo abituati a pensare soltanto nella loro accezione positiva. Con il termine "progresso", ad esempio, si tende in genere ad indicare i miglioramenti ottenuti da una società o addirittura dall'umanità intera rispetto a epoche passate. Ci si dimentica però che nella storia, proprio all'insegna del progresso, sono state perpetrate anche grandi atrocità, discriminazioni e soppressioni di diritti.
Così come "progresso", anche il termine "semplificazione", nell'accezione comune, indica in genere un miglioramento: ciò che è semplice è visto infatti con favore rispetto a ciò che è complicato. A dire il vero, però, la semplificazione - così proprio come il progresso - non sempre rappresenta in sé un bene, poiché il suo conseguimento ha un prezzo da pagare che bisognerebbe sempre prendere preliminarmente in considerazione.
Nel caso di specie, la semplificazione apportata dalla riforma costituzionale dovrebbe garantire di avere una macchina politico-istituzionale meno farraginosa e più snella. Il fronte del "SI", però, non si pone la fatidica domanda: "a che prezzo?". Vediamo di scoprirlo.
Una delle principali innovazioni che apporterebbe la riforma qualora fosse approvata consisterebbe nel superamento del c.d. "bicameralismo perfetto". In particolare, Camera e Senato non saranno più in una posizione reciprocamente equipollente, ma si differenzieranno tra loro per competenze e funzioni. Sennonché, sempre secondo il testo della riforma, il "nuovo Senato" non sarà eletto direttamente dai cittadini, bensì composto da senatori nominati dal Presidente della Repubblica nonché da senatori scelti tra consiglieri regionali e sindaci.
Un primo importante prezzo da pagare per avere "semplificazione" è allora rappresentato da uno svilimento della democrazia, poiché si impedisce ad un elettorato già disamorato dalla politica di scegliere direttamente i propri rappresentanti in Senato. E questo è un fatto grave soprattutto se rapportato ad un altro segnale: sempre in un'ottica di semplificazione, infatti, rientra il fenomeno della "falsa" soppressione delle Province, enti che con la riforma sono destinati addirittura a scomparire dalla Carta costituzionale (non essendo cioè più previsti come enti politicamente autonomi) ma che viceversa continueranno nella sostanza ad esistere, sebbene con funzioni poco chiare e con consiglieri (anch'essi come i nuovi senatori) non più scelti direttamente dai cittadini.
Mi pare allora di capire che questa riforma vada ad inserirsi in un disegno politico che tende a compromettere significativamente la democrazia. Ciò è cosa assai grave, ed un ulteriore campanello d'allarme in tal senso proviene anche dall'innalzamento del numero minimo di firmatari necessario a presentare un disegno di legge d'iniziativa popolare (che dagli attuali 50 mila, con l'approvazione della riforma passerebbe addirittura a 150 mila).
In secondo luogo, mi sembra che la semplificazione voluta dalla riforma finisca per generare molta confusione. I nuovi senatori, infatti, ricoprirebbero al tempo stesso la carica di senatore e sindaco, oppure di senatore e consigliere regionale, con commistione di ruoli e funzioni di cui non certo ne beneficerà il Paese. E molto confuso è anche il procedimento di formazione delle leggi: con la riforma infatti, l'art. 70 della Costituzione passa da un testo attuale composto da appena 9 parole d'immediata comprensione ("la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere") ad un testo aggrovigliato di oltre 400 parole. Confusi infine sono anche i nuovi rapporti tra Stato e Regioni alla luce del nuovo disegno del Titolo V della Costituzione.
In terzo ed ultimo luogo poi, considerando che i nuovi senatori godranno dell'immunità parlamentare, sembra che questa semplificazione determini anche un potenziale ampliamento delle occasioni di impunità.
Insomma, lo snellimento della macchina politico-istituzionale (da ottenere per il tramite della tanto propagandata "semplificazione") comporta il pagamento di un grande prezzo in termini di svilimento della democrazia, di confusione e di impunità: un prezzo che, dal mio punto di vista, non vale affatto la pena di pagare.

A chi, come Lei, solleva un problema di democraticità, i sostenitori della riforma oppongono che i poteri del Presidente del Consiglio non sono oggetto di modifica così come pure non saranno intaccati i principi fondamentali della Costituzione.
Il potere di qualcuno può essere aumentato in due modi: a) direttamente, cioè conferendo a costui più potere di quanto già non ne abbia; b) indirettamente, cioè riducendo il potere di chi gli sta intorno.
La riforma accresce il potere del Presidente del Consiglio indirettamente e, cioè: 1) facendo perdere peso politico al Parlamento; 2) garantendo alla maggioranza di governo più facilità di eleggere un Presidente della Repubblica "di parte".
Dunque, in primo luogo, l'esistenza di una sola Camera che fa le leggi e che detiene il potere di conferire e revocare la fiducia al Governo costituisce un rafforzamento indiretto dei poteri del Premier, poiché il maggior numero di seggi di quella Camera sarà detenuto ovviamente dalla maggioranza di governo di cui il Premier è espressione. Ma questo è forse l'aspetto meno grave, perché - a fronte di una minore considerazione delle opposizioni (con buona pace, ancora una volta, della democrazia) - qualcuno potrebbe comunque ravvisare un vantaggio determinato da una maggiore stabilità politica dei governi.
Il fatto più grave, invece, è insito, in secondo luogo, nella modifica dell'iter di elezione del Presidente della Repubblica. Ed invero, come noto, il Capo dello Stato è organo costituzionale che rappresenta l'unità del Paese. E' opportuno quindi che la sua elezione sia frutto di un compromesso tra governo e opposizioni. E proprio in questa direzione vanno infatti i quorum previsti attualmente dalla Carta costituzionale per eleggere il Capo dello Stato, e precisamente: i 2/3 degli aventi diritto per le prime tre votazioni e la maggioranza assoluta degli aventi diritto (50%+1) dalla quarta votazione in poi. Con la riforma, invece, i quorum verrebbero in parte modificati come segue: 2/3 degli aventi diritto per le prime tre votazioni (dunque, invariato rispetto al regime vigente); dal quarto scrutinio, i 3/5 degli aventi diritto; dal settimo scrutinio sarebbe infine sufficiente il voto favorevole dei 3/5 dei votanti. Il quorum previsto a partire dalla settima votazione in poi di fatto garantisce teoricamente alla maggioranza di avere da sola i numeri per eleggere chi essa vorrà, poiché non sarà più possibile per le opposizioni disertare volontariamente l'aula parlamentare al fine di sollecitare la confluenza su un candidato che goda di una più ampia condivisione politica. E questo è un dato significativo anche alla luce del fatto che, sui dodici Presidenti della Repubblica fin'ora avvicendatisi nella storia repubblicana italiana, ben cinque sono stati eletti oltre il sesto scrutinio.
Il Capo dello Stato allora rischia di perdere la caratteristica di rappresentante dell'unità del Paese, per "partitizzarsi", legandosi cioè necessariamente al gruppo politico che autonomamente lo avrà eletto. Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica saranno così, da un punto di vista politico, pericolosamente molto vicini. Anche ciò non è un bene per la democrazia.
Discorso analogo vale per la modifica dei principi fondamentali della Costituzione. Anche la modifica di questi ultimi può infatti avvenire in maniera diretta o indiretta. La riforma dunque rischia di modificare indirettamente (cioè nella sostanza sebbene non nella forma) la prima parte della Carta Costituzionale. Un esempio? Il comma secondo dell'articolo primo della Costituzione recita: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Ora, se io aggravo i limiti di esercizio della sovranità popolare (come detto: aggravando il procedimento di presentazione di disegni di legge d'iniziativa popolare, ovvero riducendo gli spazi di democrazia cioè facendo sì che i cittadini non possano più votare i senatori, etc.) non sto modificando formalmente e direttamente l'art.1 della Costituzione però, indirettamente e nella sostanza lo sto facendo, in quanto il popolo sta di fatto avendo minori spazi di sovranità.

E sulla riforma del Titolo V?
La riforma del Titolo V della Costituzione incide sui rapporti tra Stato e Regioni provocando un accentramento delle competenze in capo allo Stato. Ciò, oltre a determinare un grave squilibrio tra Regioni a Statuto Speciale e Regioni Ordinarie (poiché alle prime sarebbero garantiti comunque maggiori margini di autonomia e di competenza), consegna di fatto al Governo potere decisionale su materie molto delicate, sulle quali sarebbe invece opportuno che decidessero le Regioni in virtù di una migliore conoscenza del contesto territoriale specifico nel quale poi la previsione legislativa andrebbe ad incidere. Ma non solo. Il riparto di competenze tra Stato e Regioni resta ancora molto confuso e la riforma non incide come dovrebbe nemmeno sul disegno territoriale dello Stato, con la conseguenza - tra l'altro - che le Regioni restano enti di estensione territoriale troppo vasta, di difficile governabilità e fonte di eccessiva spesa pubblica.
Mi sembra di capire comunque che il suo "NO" alla riforma sia legato principalmente ad un problema di democrazia. Le chiedo: cos'è oggi la democrazia? E il nostro sistema può dirsi effettivamente democratico?
Democrazia è un termine dalle innumerevoli accezioni, tant'è che nella storia sono state con esso indicate forme di governo che oggi probabilmente non definiremmo neppure democratiche. Anche l'etimologia del termine in realtà non dice granché: l'espressione "governo del popolo" è così ambigua che trova infatti poco senso pratico.
Se dovessi allora definire l'odierna democrazia, con tristezza lo farei prendendo in prestito due espressioni: una di Niklass Luhmann, l'altra di J. A. Schumpeter. Luhmann, sociologo tedesco del secolo scorso, in maniera pungente diceva che democrazia è quella forma di governo nella quale ogni quattro o cinque anni "ci portano a votare". Schumpeter, invece, riteneva che democrazia fosse soltanto una mera scelta dell'élite che è chiamata a governare.
Dico "con tristezza" perché queste espressioni mi costringono a delineare una democrazia fortemente in crisi, nella quale il procedimento elettorale diventa un momento significativo soltanto per la legittimazione giuridica dell'élite che eserciterà il potere politico.
La crisi della democrazia, peraltro, è ravvisabile anche nella crisi dei partiti, che coincide con la crisi delle ideologie. Dal mio punto di vista, infatti, oggi non ha più senso distinguere tra partiti di destra e partiti di sinistra, per lo meno nell'accezione di destra e sinistra che si aveva fino a trenta o quaranta anni fa. Ciò si riflette sull'elettorato il quale, perdendo i valori politici di riferimento che permettevano in passato di differenziare nettamente i gruppi politici tra loro in contesa, ha perso interesse verso la politica. E' proprio per questo motivo infatti che spesso in giro si sentono espressioni del tipo "io non voto perché tanto i partiti sono tutti uguali". I partiti, in realtà, non sono tutti uguali, poiché rispecchiano interessi riconducibili a élites di potere differenti. Ma poiché tali interessi sono comunque tutti assai lontani dalle esigenze della popolazione, agli occhi di quest'ultima essi appaiono praticamente indistinti. Ritengo allora che il nostro sistema (ma non solo quello italiano - si badi - quanto piuttosto quello delle cc.dd."democrazie occidentali") sia sempre meno democratico e sempre più plutocratico.

Vi è secondo Lei un modo per far fronte alla crisi della democrazia?
Vi è democrazia dove vi è possibilità di scelta.
Ravvivare una democrazia significa allora operare perché le possibilità di scelta in una società si moltiplichino. Ciò è in sostanza quanto sosteneva anche Voltaire quando affermava: "Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire". La politica, allora, per rianimare una democrazia morente dovrebbe sempre operare per aumentare le possibilità di scelta e per dar voce alle minoranze.
La riforma costituzionale che passerà al vaglio referendario il prossimo 4 dicembre, però, va nel senso opposto.
Ed invero, se si impedisce agli elettori di scegliere i senatori, si stanno di fatto riducendo le possibilità di scelta. Se si riduce il peso delle minoranze nel procedimento di elezione del Presidente della Repubblica, si stanno di fatto riducendo le possibilità di scelta. Se si obbliga una Regione a subire passivamente decisioni che incidono sul proprio territorio e sulla propria popolazione, si stano di fatto riducendo le possibilità di scelta.
In altre parole, la riforma imprime una svolta antidemocratica al sistema, soprattutto se si considera il fatto che la stessa è proposta da una maggioranza eletta con una legge elettorale dichiarata poi incostituzionale: ciò, sebbene non renda giuridicamente illegittimo il governo, rende politicamente riprovevole la scelta di operare riforme tanto importanti senza un'ampia condivisione delle stesse con le altre forze politiche.
Da tutto ciò la mia ferma convinzione nel votare per il "NO", certo di contribuire in tal modo alla salvaguardia della democrazia e della Costituzione.

Martedì, 15 Novembre, 2016 - 00:05