"Mentre la luce è piena"

Davide Rondoni racconta Giovanni Francesco Romano. L'incontro si svolgerà il 7 luglio al Palazzo della Cultura di Galatina. Interverrà anche Giancarlo Vallone

"Mentre la luce è piena" è il titolo del settimo appuntamento della rassegna "Dammi un L" organizzata dal Comune di Galatina Sabato 7 luglio alle ore 19:30, Davide Rondoni racconterà Giovanni Francesco Romano, nel Palazzo della Cultura.
Sono previsti i saluti di Cristina Dettù, assessore alla Cultura e l'intervento di Giancarlo Vallone. Marco Graziuso leggerà alcune poesie in alternanza con gli inteventi musicali di Ettore Romano.

Giovanni Francesco Romano (7 luglio 1918/11 luglio 1989) ha studiato al «Colonna» e si è laureato in Lettere nel 1941 a Napoli, seguendo gli insegnamenti da lui più apprezzati di Giuseppe Toffanin e Francesco Arnaldi. Da insegnante della Scuola Media “Giovanni XXIII°”, andando in pensione, lasciò la scuola definendola «spazio lucente» per i suoi studenti, ai quali aveva dedicato tanta parte della vita.
L'altra parte, quella oltre i limiti dell'attività pubblica, quella poetica, è stata intensa, ma molto schiva.
Dalle sue pieghe sono emersi tre libri pubblicati in vita: Solingo liuto, Tipografia editrice «Marra» in Galatina, 1942, undici componimenti con profondi echi dannunziani, carducciani, leopardiani; Mentre la luce è piena (1943-1948) e Il deserto attende (1949-1950), entrambi editi da Mariano editore in Galatina nel 1950, che sono caratterizzati da una perfezione metrica e da una tormentata ricerca della parola.
“Qualche cosa accadde — non so che cosa — negli anni seguenti, perché non volle saperne più di editori e di raccolte di poesia. Con tutta probabilità il suo temperamento, l'innata riservatezza, la cristallina sensibilità lo portarono a circoscrivere severamente l'area della comunicazione: facendola innanzitutto appagamento interiore; e discretissimo, quasi pudico rapporto mediale con pochi amici, con i quali aveva vissuto uno stimolante sodalizio intellettuale. …. Un verso dev'essere compiuto in sé, diceva: come ogni scorcio d'una struttura architettonica. Amava Ungaretti per l'espressione distillata, Montale per le rispondenze delle metafore, Cardarelli per l'energia della parola, Sinisgalli per l'arditezza della sintassi, Gatto per la profondità degli affetti, Saba per la profondità del dolore, Bodini per il «lorchismo otrantino», Pagano per gli echi francesi, Quasimodo per gli echi greci.” (Aldo Bello)
Dalla poesia haiku (o haikai) Giovanni Francesco Romano fu affascinato nel 1953: ebbero origine poesie nella struttura metrica definitiva dei tre versi, di cinque-sette-cinque sillabe, oppure videro la luce composizioni brevi, poi ridefinite nello schema haikuista.
Il paesaggio naturale e quello umano si pongono in relazione e contribuiscono alla enunciazione di lampi esistenziali.
Di questo innamoramento è dimostrazione la pubblicazione postuma della raccolta degli haiku Il vento e le stagioni, edizioni SudPuglia del 1990, con una pregevole introduzione di Aldo Bello che si è avvalso dei “contributi metodologici e di memoria storica” di Aldo Vallone e di Enzo Esposito, tutti vicini al poeta nella frequentazione, insieme ad altri illustri uomini della cultura galatinese, dello “Sgabuzzino” o “Frigorifera”, il locale in via Cavoti tenuto aperto alle loro discussioni fino al 1967.
Di questo spaccato galatinese Giancarlo Vallone narrerà una sua testimonianza nell’incontro di sabato 7 luglio.
Le ultime raccolte postume, tutte volute ed edite grazie al lavoro di sistemazione del materiale poetico compiuto dalla moglie Etta Giustizieri, sono state pubblicate con l’editore Manni.
Una prima raccolta poetica è stata Superstite, io rammento, uscita nel 1993 con prefazione di Donato Moro, in cui, pur nella varietà dei materiali presenti,  “egli continua a manifestare, in uno stile che in misura prevalente si li­bera dalla preoccupazione della parola-folgorazione e dai canoni neo­simbolisti, un'ispirazione fondamentalmente intimista e, con il passare degli anni, tende a rifugiarsi sempre più in una cerchia di affetti, di vi­te e di immagini confortatici: la famiglia, gli amici, aspetti della natu­ra, insomma il suo habitat esistenziale.” (Donato Moro)
Nel 1994 la seconda opera, Epigrammi: raccoglie, con gli originali a fronte, le traduzioni di alcuni testi dei lirici greci Leonida, Anite e Nosside. Nella sua prefazione, Enzo Esposito conclude affermando che “tradurre vale insomma far esprimere un autore nella nuova lingua con i toni freschi e le sfumature e le risonanze interiori del testo originale”. E Giovanni Francesco Romano, anche a suo dire, è riuscito nel suo lavoro di traduttore a cogliere il “palpito, la vita” della parola greca.

Giovedì, 5 Luglio, 2018 - 00:07