Le tasche piene di biglie

-Eri un monello – mi disse quell’anziana signora incontrata per caso e che subito mi riconobbe. Poi continuando: – mi facevi paura quando passavi o ti incontravo per strada, sempre con quel “fucile” - . E mentre parlava mi sembrava fosse ancora arrabbiata dopo più di mezzo secolo. Per fucile intendeva una striscia di legno lunga circa una cinquantina di centimetri ricavata quasi sempre da un “tiraletto” in disuso, che non ce la faceva più a mantenere le corde di tabacco.
Al centro o quasi, si fissava “nu cappettu”  di quelli per appendere le robe ad asciugare, in legno e poi si stirava un elastico ricavato da una camera d’aria d’auto tagliata a cerchi, tenendolo fermo dentro “lu cappettu” e tirandolo sino all’estremità del legno.
Poi si prendeva la mira, si apriva “lu cappettu” e si lasciava partire l’elastico che se ben stirato poteva arrivare abbastanza lontano e poteva fare anche male. Con quel fucile artigianale, andavo in giro nel mio quartiere insieme ai miei amici con quell’aria un po’ da “bullo” e un po’ da cow boy. E che dire poi di qualche volta, quando non so in base a quale dinamica fisica o chimica l’elastico invece di andare avanti andava indietro sino a colpirti tra le risate generali.
Quella volta, nascosti dietro le lenzuola appese ad asciugare nel suo giardino,  avevamo sparato contro i vetri della finestra di quella signora. Avevamo sparato a raffica ed avevamo più volte colpito il bersaglio. Era una signora discola e sofistica ma quella volta aveva ragione, aveva proprio ragione. Si recò a casa di ognuno di noi e ancora spaventata raccontò tutto quanto ai nostri genitori. Fu l’occasione giusta, quei “fucili” ci vennero sequestrati.
Ci restò solo il cappello e il gilet da cow boy. Quando finalmente riuscimmo a costruirne un altro, non ci divertivamo più. Eravamo già cresciuti, avevamo altri interessi.
Avevamo le tasche così piene di biglie da perdere quasi i calzoncini da dosso. Avevamo scavato qualche buca in qualche angolo di strada, allora non ancora asfaltate, e lì si giocava. Si mirava per far entrare in buca la biglia o farla avvicinare il più possibile e poi ognuno cercava di colpire con la propria biglia la biglia dell’altro. La biglia colpita era vinta.
Se chiudo gli occhi sento ancora il rumore di una biglia che colpisce l’altra e se ad essere colpita era la mia, perdevo la biglia ed anche una parte di me. Ero un collezionista, ne avevo tantissime ne avevo di bellissime, ma non fui mai abbastanza bravo nel colpire le biglie degli altri.
Ma tu vuoi mettere  le “biglie” che con 5 lire ne compravi senza fatica più d’una, con la creatività e l’impegno messo nel costruire da nulla un “fucile”, che tra l’altro m’aveva fatto conquistare il titolo di “monello”, di cui ancora vado fiero?
Secondo me non c’è paragone. Meglio le “biglie”.

Giovedì, 30 Aprile, 2015 - 00:06