Le scarpe degli altri

Ero stato invitato ad un convegno presso l’ università di Bari, dove si sarebbe parlato di “immigrazione”. Non sarei mancato per nulla al mondo, non aspettavo altro, alla presenza del Magnifico Rettore, di un assessore in rappresentanza della Regione, della preside della facoltà di sociologia e di tante altre personalità, avrei esposto il mio modesto pensiero.
Non avrei detto che occorre costruire muri ma poco sarebbe mancato. Insomma avrei sostenuto la “tesi” che non si poteva andare avanti così.
Arrivai puntuale come mai e alle dieci precise la presidenza diede inizio ai lavori. Una sfilata di discorsi mielosi e buonisti, si susseguivano e mi caricavano sempre di più. Il mio sarebbe stato un “pensiero” non contro l’accoglienza ma contro il disordine e l’improvvisazione con cui veniva fatta, contro lo stravolgimento di tante nostre piccole comunità.
Mi ero prenotato, aspettavo solo il mio turno, venivo praticamente dopo la ragazza che il presidente aveva appena chiamato a parlare. La presentò: era una ragazza fuggita dalla guerra in Bosnia con la madre e un fratello più piccolo, poi fu lei stessa a portare la sua diretta testimonianza.
Mi era calato il sonno ma quando quella ragazza cominciò a parlare, mi si spalancarono gli occhi.  Una ragazza esile, ti accorgevi subito dai lineamenti che non era di nazionalità italiana. Neanche trent’anni e da più di venti in Italia in un paesino vicino a Brescia.
Quella vocina prima ammutolì la platea e poi la commosse sino a farla piangere ed io insieme agli altri.
Raccontò del viaggio, “del peso e del vuoto” nello stomaco quando con la nave si allontanava dal suo paese. Del suo continuo chiedersi “perché e cosa” amava di più del suo paese. Del suo sentirsi sempre in “mezzo” non completamente arrivata e mai completamente lontana. Raccontò quando la sera con sua madre e suo fratello andavano a mangiare alla Caritas e quella volta che andarono, sempre alla Caritas, a chiedere un paio di scarpe per loro.
Lo fecero sul tardi quando ormai non c’era più quasi nessuno. Quella sera si misero ai piedi “ le scarpe degli altri” ormai formate nella camminata e nel piede di chi le aveva usate prima di loro. Per loro erano le scarpe “nuove”.
A metà discorso, la prima lacrima si posò sul mio maglione, poi non le contai più. Quando finì ci alzammo in piedi ad applaudirla commossi ed io fui il primo a cominciare e l’ultimo a finire.
Rinunciai a parlare, non sarei riuscito a pronunciare un discorso che non sentivo più mio.
Andai a salutarla, presi tutti i recapiti che lei aveva, diventammo amici.
Le sue parole toccanti e quel vissuto raccontato con  voce ancora tremante aveva gelato la sala e scaldato i cuori.
Mi ero ben presto reso conto che avevo giudicato quel che succedeva molto sommariamente, e forse molto sommariamente avevo condannato.
Non avevo capito, non avevo sentito o non conoscevo le loro storie, forse non avevo voluto ascoltarle. Non l’ho ancora chiamata, le ho mandato solo un messaggio:“ Anche le cose più semplici e scontate, sono cariche di straordinaria bellezza. Solo che non ce ne accorgiamo quasi mai. Tra un po’ esco, ho messo le scarpe, le mie scarpe. Mi sento fortunato”.

Domenica, 5 Febbraio, 2017 - 00:06