L’acqua della goccia
“E’ bello quello che leggo, ma manca qualcosa. Ricorda che la via della croce non si conclude con la deposizione di Gesù, ma con la sua Resurrezione”. Eravamo seduti nella sagrestia della Chiesa del “Collegio” , avevo aspettato che sbrigasse i suoi uffici mattutini: indicazioni pastorali, l’ascolto dei suoi fedeli, qualche telefonata. Mi dedicò tutto il tempo necessario per leggere l’ultima stesura della mia raccolta sulla passione di Gesù. Ed aveva colto il mio limite, come fa un padre che osserva l’angoscia di un figlio. Nel succedersi delle “mie Stazioni” ne mancava una, la quindicesima, la Resurrezione.
Non è solo un problema di religione, questa resta nel confine della propria esperienza, è un fatto di testimonianza. La Resurrezione è nella testimonianza della propria fede, della propria vita, nelle azioni verso l’altro. E’ nel vento che disperde sulla terra, tra gli uomini, le opere di carità, la verità di tutti i sorrisi donati, è nella silenziosa opera di misericordia.
Mi potrebbero bastare queste riflessioni per amare don Fedele, il buon pastore. E tralascio l’averlo avuto come insegnante di religione durante le scuole medie, quando nelle infantili intemperanze capivi in una frazione di secondo il peso del suo sguardo. Don fedele, Il buon maestro.
Ora è presto, mi risuona ancora il timbro della sua voce, come accade in ogni dolore che germoglia.
Nel pellegrinaggio alle sue spoglie lo scorrere degli anni di ognuno, il racconto tenuto segreto da un solo uomo, la presenza delle nostre ombre, una devozione ora all’uomo, ora al sacerdote, ora all’ esempio. E le donne, le giovani donne migranti accolte come figlie, sperdute nello sguardo, immerse nel gelo di un’altra solitudine.
Ognuno ha la propria preghiera ed anche chi non prega ha delle parole a cui sostenersi.
La mia è una parola ritrovata, perché durante il cammino, nel mio incostante esserci e scomparire l’ho sempre incontrato, nella sua talare, pronto al richiamo benevolo, alla battuta, al racconto di un’esperienza. Don Fedele, l’esempio.
Si sgretola il mondo intorno a noi, nella forma e nella sostanza. Nella quotidianità si spengono le certezze e cogli la frustrazione di una generazione che vorrebbe donarle, ed invece raccoglie dubbi, di una generazione che vorrebbe erigere colonne ed invece vive nell’ombra di quelle non ancora cadute.
In questo racconto vivo della nostra vita, chi ha potuto, chi ha voluto ha incontrato don Fedele, il suo sorriso rassicurante, le sue parole appropriate, presenza che sapeva farsi comunità.
Ora è presto, lo vedo ancora camminare lungo le navate delle sue Chiese, lo vedo in un angolo a pregare, lo vedo bussare al cuore di quegli uomini che mai avrebbero disturbato il suo.
Nel suo testamento ho la mia parte e l’ho ricevuta prima della sua partenza: dare un senso alle parole ed imparare ad ascoltare.
C’è qualche opera da finire di compiere nelle “sue missioni”, ed in quella direzione si sarà incamminato. La via per la resurrezione la percorri durante l’esistenza, e la vita eterna non viene dopo il tempo.
Racconta Raimon Panikkar una metafora ritrovata nelle letterature persiane, indiane, cristiane, ebraiche: quella della goccia d’acqua. “Noi siamo gocce d’acqua. Che cosa ne è della goccia d’acqua quando muoio? La goccia scompare. Cade nel pèlagos infinito. Scompari? Ma che cosa sei tu, in realtà, la goccia d’acqua oppure l’acqua della goccia? Durante la nostra vita mortale noi dobbiamo realizzarci come acqua, e non soltanto come goccia”.
Aveva in ultimo la voce flebile, ma il pensiero lucido e le sue parole chiare, come l’acqua.
Don Fedele.
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