"La strada del ritorno è quella dell’incontro e del dialogo"
Il 23 luglio scorso, nella Chiesa dei Battenti a Galatina, Nico Mauro ha aiutato i presenti ad "incontrare" Lucio Romano. Per sua gentile concessione pubblichiamo il suo intervento: "Siamo qui per ricordare Lucio o per incontrare Lucio? Io propendo per quest’ultima ipotesi, perché quando parliamo e leggiamo di poesia, non ricordiamo mai qualcuno, ma lo incontriamo. Questa sera proveremo un dialogo di-verso che ci permetterà di ritrovare la poesia di Lucio e ci permetterà di incontrarlo. E’ chiaro che non ci può essere dialogo se non c’è incontro. Questo dialogo di-verso ci porta ad un incontro con la sua vita, perché la poesia alla fine è la parola della vita: nasciamo senza le parole e moriamo senza la parola. All’interno di questo intervallo c’è la vita, che per Lucio è la poesia. E quando parlo di poesia parlo del fare, parlo della traccia visibile che accompagna o unisce due punti, due momenti senza parole: nascere e morire.
Lucio Romano era oltre che poeta, anche uomo legato all’impegno civile e politico e questo rendeva concreta la sua capacità di relazionarsi con gli altri. I due interessi, quello politico e quello poetico; dal primo si è sentito tradito, dal secondo, quello poetico se è sentito avvolto, nutrito.
Al primo ha donato, dal secondo si è abbeverato. Per iniziare dobbiamo comprendere che ogni percorso di scrittura di versi ha una strada.
Una strada a senso unico, una strada non-condivisibile. Ed affermo questo per evidenziare un momento fondamentale nel processo creativo della poesia: il momento dell’ispirazione. La strada percorsa da Lucio, come da tutti i poeti è una strada che nessuno può conoscere, che nessuno conosce, è una strada di somma bellezza, in cui ogni cosa che appare, reale o fantastica, vera o verosimile, palpabile o impalpabile, appartiene solo ed esclusivamente al poeta, che la conduce con il tratto della mano su un foglio bianco.
Lungo questa strada, lungo la strada dell’ispirazione, che è strada che va, avviene un evento straordinario: l’interazione ed il reciproco trasformarsi del “materiale visibile con l’immateriale scrittura”. e ripeto l’interazione ed il reciproco trasformarsi del “materiale con l’immateriale” attraverso un filtro;
è un processo mentale, in cui ogni variabile è importante ma mai determinante: in cui la cultura personale, la sensibilità, il vissuto di ognuno, sono un elemento che può bastare di per se stesso o in sinergia, per far scaturire un verso, più versi, una poesia. Ma la loro presenza non necessariamente determina una poesia.
Scriveva Lucio: Appesa ai fili / della mente l’ispirazione /che non trovo, come / sulle terrazze panni/ se venta di scirocco/. ( da lettere di Gioacchino Toma a Eduardo Dal Buono)
Quindi lungo questo percorso non abbiamo margini per incontrare un poeta. Abbiamo solo una possibilità: osservare con lui, o come lui, l’aspetto materiale, l’evidenza (l’ evidente) , ovvero la cosa chiara in se stessa.
Bene, fermiamoci su questo verbo e cogliamone il significato: osservare (dal lat. observare), significa «serbare, custodire, considerare».
Quindi osservando finiamo con il fare, precisamente, ciò che il poeta fa, lungo la sua strada, cioè scrutare, custodire,considerare. Chi non è capace di osservare e quindi di “serbare, custodire, considerare “ non è in grado approssimarsi alla poesia. Possiamo quindi affermare che la poesia è un prodotto, una trasformazione (anche qui ci aiuta il suo etimo latino e greco):
Una trasformazione dell’osservato, che non è ciò che vediamo.
Dicevo quindi che è impossibile incontrare il poeta sulla sua strada dell’ispirazione, e quindi dove lo incontriamo?
C’è un’altra possibilità: possiamo incontrare il poeta su un’altra strada, che io chiamo
la strada del ritorno.
La strada del ritorno è quella strada che si materializza nei versi, nei versi raccolti, nel libro, nella lettura. La strada del ritorno è la strada dell’incontro, quindi del dialogo.
Noi quindi possiamo prenderci per mano, oppure incamminarci da soli lungo la lettura dei versi di Lucio e percorrere la sua strada del ritorno, che è la strada del dialogo, dialogo di-verso, della conoscenza, della curiosità, dell’interesse.
Abbiamo solo un indice che ci permetterà di capire se il dialogo è stato interessante, se il tragitto fatto lungo la strada del ritorno è stato utile: questo indice si chiama stupore.
Cosa è lo stupore se non la dimensione fisica prolungata della sorpresa. Permettetemi di dire che lo stupore è il volto della meraviglia. Se non ci lasciamo sopraffare dallo stupore mai potremo leggere alcuna poesia.
C’e una poesia di Giovanni Paolo II, tratta dal“ Trittico Romano”, le meditazioni davanti agli affreschi di Michelangelo, sulla creazione, nella Cappella Sistina,, in cui Karol Wojtyla ci parla dello stupore e lo rappresenta nei suoi versi ponendo l’uomo di fronte alla bellezza d’un torrente che discende dal monte. Fino ad affermare:
…………
La soglia che il mondo trapassa nell'uomo
è dello stupore la soglia,
……………
Non ho con questo intervento la pretesa di spiegare l’opera di Lucio Romano. Questo per me non è possibile. Ho cercato solo di trovare alcune tracce, lungo il suo percorso e provare a seguirle. Uno dei temi che ho colto nella sua poesia è il “sentimento del tempo” di Ungarettiana memoria.
Quella riflessione sul tempo che passa, sul trascorso del proprio tempo, sulla precarietà della propria esistenza, in un ambito di consapevolezza e maturità che colloca Lucio, ed aggiungo ci colloca, di fronte a resoconti drastici e considerazioni amare.
C’è in “quel tutto e niente” di Lucio Romano, (è questo il titolo d’una sua poesia), una assolutezza drammatica della propria visione del tempo, che sembra trasformarsi da sentimento del tempo in “senso del tempo”.
Io penso che Lucio assorba completamente la lezione Ungarettiana e la salentinizzi, laddove la caducità della vita si rappresenta nei luoghi, negli oggetti, nelle forme che mutano come muta la luce al passaggio del vento.
QUEL TUTTO-E-NIENTE (da MORIRE DI-VERSO)
Sarebbe bello, pensi, andare a versi
olio filato dentro la bottiglia
ma basta un alito a smuovere l'imbuto,
una mossa sbagliata, la stanchezza,
quel tutto-e-niente, dici,
che ti costringe al frammento.
Non ti crucciare più, pensa ad Omero
che trovò pace nel canto già avanti
negli anni: non ricordava, sotto i dardi
d'un sole accecante, che versi sparsi,
spezzettati. lo stremava il vagare.
C'è sempre un vocio
sulle navi
Riprendiamola e proviamo ad entrare nei versi:
Sarebbe bello, andare a versi
olio filato dentro la bottiglia
sembra la manifestazione d’un desiderio di serenità, un desiderio di appagamento. Andare a versi come camminare godenti della bellezza che ci circonda e della bellezza che ci appartiene;
andare a versi come olio filato dentro la bottiglia.
Una immagine bellissima, straordinaria.
Cosa è l’olio filato dentro la bottiglia, se non la vita, con un suo corpo, una sua densità, un suo colore, una sua regolarità, un suo senso definito ma anche indefinito e fantastico.
ma basta un alito a smuoverti l’imbuto,
una mossa sbagliata, la stanchezza,
quel tutto-e-niente, dici
che ti costringe al frammento.
Ma basta un alito, un soffio diverso, diremo un soffio di-verso, a deviare la traiettoria perfetta, quella traiettoria guidata dal collo dell’imbuto verso il lume della bottiglia.
Noterete come in questa descrizione, l’imbuto non faccia corpo con la bottiglia, ma sia sospeso e funga quindi da contenitore e guida. Raccoglie e contiene l’olio - vita, e ne permette la caduta verso una direzione, la direzione perfetta.
Quindi basta un alito, una mossa sbagliata a smuovere l’imbuto.
Basta un nonnulla, un errore, la stanchezza (che è stanchezza degli anni, della mente, - in altre poesie sarà accidia-) a far cessare la traiettoria perfetta della vita.
E così quel tutto-e-niente trasforma i versi in frammenti.
S’andava per versi e si giunse ai frammenti.
La pienezza della vita, che è verso, nella sua luce è corpo d’olio che fila, s’inizia fare frammento.
Non ti crucciare più, pensa ad Omero
che trovò pace nel canto già avanti
negli anni: non ricordava, sotto i dardi
d'un sole accecante, che versi sparsi,
spezzettati. lo stremava il vagare.
Lucio cita Omero, per la ponderazione di quell’idea di vecchiezza che, con Omero, diventa icona.
Sotto i dardi d’un sole accecante,
non ricordava che versi sparsi, spezzettati.
Chi ricorda Lucio e l’ha ascoltato rammenterà il suo piacere nel ripetere con quella sua voce cantilenante i versi a memoria. Era un esercizio di memoria, una manifestazione di vitalità, che con il tempo si era affievolita.
Ora i versi si fanno sparsi e spezzettati, perché lo stremava il vagare.
Il vagare di Lucio.
Sarebbe questo un tòpos della sua poetica.
Lui ci ha dato un titolo “Vagare stanco”, sua seconda raccolta (anni 1965 /68), ma quel titolo esprime anche il suo inesauribile desiderio di scandagliare la vita e la memoria della vita facendo dell’incontro la sostanza di questa ricerca.
Incontro di persone vive o defunte, incontro di luoghi nuovi o della memoria.
Questo suo vagare lo stremava. E chiude con
C'è sempre un vocio
sulle navi.
La nave può essere il luogo del suo vagare. Una nave sempre a galla, un luogo definito, che accoglie il vocio, quella dimensione esterna alla sua vita, lontana da se ma presente in se. quel tutto-e-niente che in Lucio diventa l’assoluto.
E vi porto un’altro esempio del vagare di Lucio che, come ho detto è Incontro di persone vive o defunte, incontro di luoghi nuovi o della memoria.
Venti notturni ( a Donato Moro)
Quando sentiamo impazzire i venti notturni
è l’ora perduta che grida la sua sorte,
è il passato che va visitando memorie.
Al rinascere di attimi morti
vengono a noi volti lontanifatti rimpianti ed ombre.
Qui il vento forte scardina ogni ordine di spazio e di tempo. Il vento è un luogo dell’incontro del passato con le memorie,
il luogo in cui rinasce il tempo che sembra morto, e coloro che non ci sono, tornano
“fatti rimpianti ed ombre”.
In questi versi il suo vagare è un turbinio di buio e di grida lontane.
Il tema del vento lo ritroviamo anche in
Morire di-verso
I venti attraversano in lungo e in largo
la città, la scandagliano, la penetrano,
vedono il suo mutarsi, le solitudini:
a forza d’infuriare si fanno
portatori di rovine.
(A sentire nei venti
lamenti-di-morti
c’è sempre una zia)
E’ questo un vento impetuoso ed impietoso che è spazio e si fa tempo, che semina e raccoglie come fosse una dimensione fisica della memoria.
Questa poesia ci permette di incontrare un altro aspetto presente in Lucio Romano, e non vi appaia questo improbabile: è l’aspetto della religiosità :
Le anime invece, le anime non viaggiano,
stanno lungo i viali in silenzio, stanno
orizzontali: le vinse tutte quante
all’improvviso un sonno forte,
e non c’è Cristo né verso di destarle.
Solo il poeta muore e nasce
dieci, cento, mille volte:
non gli servono marmi né viali
per morire - per risorgere
impiega meno di tre giorni.
Potrebbe essere una blasfemia, io vi leggo una invocazione, la consapevolezza che Cristo sulla terra non è presenza se non attraverso l’uomo che sceglie di essere profeta di se stesso.
Anche nella poesia Insonnia (da Vagare stanco) c’era il tema del vento e di Cristo:
E più non mi consoli nelle notti
Insonni, sorriso che svanisci
d’assenza. E’ come il vento sempre
torna uguale nelle notti d’autunno
mi vieni e devasti lunghi ricordi.
Tu che mi hai fatto? Pensavo a te
Come un giardino di viole, all’eden
delle mie ore, a una valle di sogni,
al tam tam delle vene. Ma da quando
mi hai detto addio
sperare amore è vano
nelle ore del giorno.
A notte mi faccio Cristo
Che veglia negli orti.
E’ qui l’insonnia come metafora della poesia che non può dire, l’insonnia che giunge a devastare i lunghi ricordi, e che rende incompiuta la notte come la parola rende incompiuta la poesia.
A lui non resta che “farsi Cristo / che veglia negli orti/”.
E sgorga come acqua pura il suo senso religioso; quel tentativo riuscito di rendere la voce di Cristo (la voce e non la parola) sestante nel suo navigare a vista.
E’ durante la notte che la veglia nell’orto è riflessione e attenzione sul nostro vissuto e quello altrui. Una veglia perché si compia la migliore vita.
L’ultima poesia della raccolta, Morire di-verso, ha per titolo:
Metto puntoCon questa poesia Lucio si congeda,
fa il punto della situazione, diventa un punto, e riesce a fare di un segno impercettibile sul foglio un momento di sintesi e quasi il compimento della sua parabola.
Un punto o tutti i punti diventano uno strumento di narrazione.
Ne viene fuori una traccia pessimistica, in cui però emergono alcuni tra gli elementi fondamentali della sua poesia e tra questi la poesia politica, come impegno civile.
Questa poesia sembra quindi chiudere la sua stagione.
Ma così non sarà.
Nelle “lettere di Gioacchino Toma a Eduardo Dalbono,” ultima opera edita, Lucio Romano vive una nuova esperienza poetica.
Egli sente di avere poco da narrare e quindi usa uno stratagemma lirico.
Si fa persona diversa da se, penetra ed assorbe l’opera pittorica di Gioacchino Toma e ancor di più si fa veicolo dei suoi colori, dei suoi grigi colori, attraverso i quali si ritrova a narrare di se e “dell’infanzia che sparve”:
Ora che avverto il peso dei ricordi
vivo e m’accorgo che il mio andare
è come d’una barca che barcolla
sull’onde che si sono fatte scure
orfane dei colori d’una volta.
Quindi il desiderio inesausto di scrivere e raccontarsi, seppur si senta privato di parola, continua a manifestarsi, nella sovrapposizione delle storie personali, con un efficace parallelismo narrativo.
L’ ultima poesia delle “lettere di Gioacchino Toma a Eduardo Dalbono”
mi fa immaginare Lucio, in piedi di fronte allo specchio, magari mentre si rade che parla al suo cuore, ed avendo cessato di vagare, afferma:
Il mio giorno, Eduardo, lo sai
fu rigato di virgole, parentesi
tonde, colori fiochi e sbiaditi.
Lo scuro dietro il grigio
nel frastuono dei passi.
E’ il nero dell’infanzia
che racchiude memorie.
Ma niente, niente
passa ormai il convento
alle mie tele bianche."
Ero passo e ripresa.
Ora il punto e poi basta.
Ancora il punto, questa volta è l'ultima parola.
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