Il filo di lana di Pietro Mennea

E’ strano come pochi secondi possano raccontare una vita, dare un senso ad una vicenda personale altrimenti anonima. E’ strano come pochi secondi, prima di raccontare una vita, facciano la storia.Con la scomparsa di Mennea scompare anche quella retorica che vuole narrare il riscatto del meridione attraverso le azioni dei suoi figli migliori. Mennea correva per se, non per il meridione. Ogni atleta, corre per se, per l’universo che si porta dentro.   E a quell’universo non si possono affibbiare etichette qualunquiste; quel mondo è solo dell’atleta , è la sua dimensione umana, morale, fisica.
La retorica giornalistica che si è appropriata delle sua prestazione per  riscattare un territorio ha solo contribuito alla stagnazione delle motivazioni.  Nel caso del Sud: a cosa è servita?  Pochi possono parlare di Pietro Mennea come uomo; l’atleta è un patrimonio comune. Se penso alla sua storia immagino il sogno di un uomo che corre, che insegue un filo di lana. Senza mai riuscire a prenderlo. Quel filo, nell’illusione della presa, della vittoria, era posto di volta in volta lungo un traguardo su una qualunque strada, a Barletta, su un qualunque anello di atletica, nel mondo. Un filo preso nell’attimo della vittoria, portato dentro di se attraverso quel dito alzato e scomparso subito dopo, disciolto nel sorriso del podio. Senza appagamento, nell’ansia dell’allenamento successivo, nel riscontro del tempo cronometrato in prova, nella fatica muscolare percepita “nelle ripetute” sulla pista di atletica. Il filo di lana che Pietro Mennea voleva cogliere, era dentro di se, correva con lui e per questo non poteva  spezzarlo, non poteva raccoglierlo nelle mani e donarlo agli altri.
Quel filo di lana, dentro di lui, non concludeva alcun traguardo. Se questo è l’atleta nella sua luce, questa è anche la sua parte di uomo.  Se provate a rivedere il filmato di due gare memorabili, tra le tante corse, troverete nei gesti atletici, nella dinamica della competizione, l’anima, il cuore, la volontà, la tenacia, la forza, la determinazione di un atleta unico.
Citta del Messico, Universiadi, 12 settembre 1979.
Tempo di batteria 19"96
Tempo di semifinale 20"04
Corsia quattro,Tempo di finale 19"72, record del mondo.
Differenziale tra i primi cento metri ed i secondi  pari a 0,94’’
Allo start  Mennea è velocissimo, ed al quinto passo è già nella condizione di modulare la potenza con cui gestire la gara; la sua leggerezza di corsa lo porta “ad incrociare” la curva all’uscita. In quel momento il desiderio di correre domina la tecnica, la velocità percepita nelle gambe scioglie i muscoli del collo e delle braccia e la dinamica si fa più fluida, la velocità aumenta, il tempo si restringe, si comprime sulle mani che s’alternano lungo il corpo.
Corre i 200 metri in 19"72. Significa  correre i primi cento metri in 10’34 ed i successivi in 9’38, significa viaggiare ad una media di 36,511 km/h, pari a poco meno di 11 metri al secondo.
Eravamo nel 1979, e da allora dovranno trascorre diciassette anni prima che quel record venisse abbattuto, e da allora nessuno, in Europa, è ancora riuscito a fare meglio.
Il capolavoro agonistico di Pietro Mennea è stata la finale Olimpica di Mosca del 28 luglio 1980.
Dopo una clamorosa eliminazione dalla finale dei 100 metri, dopo undici anni di attività ai massimi livelli, la finale olimpica dei 200 metri è stato il film bellissimo, durato 20’38,  che racconta meglio di ogni altro evento, la carriera di un atleta e lo spirito che ne ha animato le proprie competizioni.
In quel giorno di luglio, i chiodi sul tartan della pista olimpica avevano una voce, ed urlavano sotto ai piedi di Mennea, mentre guardava le spalle di Alan Wells, di Silvio Leonard, di Donald Querrie.
Tutto, in quei momenti, poteva perdersi o poteva compiersi.
Dopo la curva, il tempo si fermò.
Provate ad immaginare, mentre leggete, ben oltre il tempo della sua corsa, cosa possa significare per un uomo di sport la dimensione del tempo, il suo valore fisico, che diventa segno morale, elemento distintivo di una unicità fatta di fatica, perseveranza, quotidianità mai raccontata.
Il tempo  nell’atletica bisogna imparare a coglierlo ed a donarlo.
Ed questo il messaggio che ho letto in questo atleta straordinario: accorciare il tempo, allo spasimo, nel tentativo estremo di fermarlo. Inseguire il tempo, con l’applicazione, nel tentativo estremo di poterlo raccontare.
Dopo la curva, come può accadere ad ognuno di noi, il traguardo bisogna guardarlo. Senza aspettare.
La corsa è veloce, più veloce, ancora più veloce, in un vortice che sembra rallentare gli altri atleti, in un vortice che chiede spazio, al tempo,  per giungere sul traguardo primo; prima degli altri.
Ed è nel nostro stupore che si compie il racconto.
Vincere in rimonta, dopo la curva. Pietro Mennea ci ha raccontato come si fa.

 

Domenica, 24 Marzo, 2013 - 00:06