Il Corpus Domini nell'epiteto della transustanziazione

Oggi 2 giugno, ricorre il Corpus Domini”, celebrazione del Sacramento Eucaristico che verte l’ attenzione sulla transustanziazione, ossia la presenza reale di Cristo nell’ Eucaristia, in reazione alle tesi di Berengario di Tours, e dei calvinisti francesi, secondo i quali la presenza di Gesù era solo simbolica. Transubstantiatio o “mutamento della sostanza per azione divina”, è un mutamento delle “sostanze” del pane e del vino, nel Corpo e Sangue di Gesù Cristo. Per spiegare il concetto dobbiamo analizzare le due classi dell’Ente: la “sostanza” e gli “accidenti”. La “sostanza” è il sostrato primo d’ogni cosa, possiede l’essere in proprio, ed è ciò che è, senza tutto ciò che non è. Sostanza, può essere la quiddità di una cosa espressa dalla definizione, difatti afferma che quest’ultima esprime l’essenza delle cose; ciò che i greci dicono ousia (essentiam).
L’essenza quindi è la definizione delle determinazioni costitutive della natura di una cosa. Sostanza è anche, il soggetto o supposito che sussiste nel predicamento della stessa. Prendendola in generale si può indicare come un nome che n' esprime la funzione logica e allora si chiama soggetto o supposito.
“Accidente”, deriva da accidere, accadere, non possiede l’essere di proprio, ma lo riceve dalla sostanza, ha una natura insussistente ed esiste in virtù del soggetto sostanza. L’accidente, è conosciuto solo quando si conosce la sostanza che lo possiede, Aristotele riduce a nove gli accidenti principali, quantità, azione, relazione, passione, luogo, tempo, situazione, abito, qualità. Nel “De natura accidentis”, S. Tommaso, destituisce quei pregiudizi che ritenevano gli accidenti un qualcosa di secondario alla sostanza, quasi inutile. Nell’opera, si afferma che: così come la sostanza è il sostrato primo d’ogni cosa, in ugual modo l’accidente è il primo oggetto conoscitivo della sostanza che gli funge da soggetto. Osserviamo come ogni conoscenza umana prende il via dai sensi, e l’oggetto proprio di codesti sono gli accidenti, ne consegue che l’accidentalità da un grande apporto alla conoscenza dell’essenza. Per questo, l’intelletto attraverso i sensi, si conforma agli accidenti, per poi conoscere l’essenza, tant’è che alcune sostanze per privarsi degli accidenti devono privarsi della loro esistenza. L’accidente non si rapporta alla sostanza in termini di potenza, ma in seguito all’atto, ossia quando la sostanza nel divenire passa dalla potenza all’atto. S. Tommaso osserva che dell’accidente si danno due accezioni principali: sia logica (è il quinto predicabile) che metafisica (è il gruppo delle nove categorie o predicamenti).
In teologia, per spiegare la transustanziazione bisogna ricorrere ad una distinzione reale tra sostanza e accidenti, poiché nell’eucaristia viene meno la sostanza del pane e del vino che muta nel Corpo e nel Sangue di Cristo. In questo mutamento, gli accidenti rimangono immutati, intatti, tant’ è che solo la sostanza del pane e del vino mutano. Proprio perché muta la sostanza e non la forma si ha una “conversione sostanziale” e non “formale”. Mutando la “forma”, muterebbero anche gli accidenti, infatti, per forma s’intende il primo atto della materia, poiché compete alla forma fissare la sostanza in un genere o in una specie. Nel sacramento dell’Eucaristia, potrebbe apparire come un inganno per i sensi la conversione sostanziale, ma non lo è, poiché i sensi giudicano solo la connotazione reale delle sostanze in questa realtà. Mentre l’intelletto, mediante la fede, è preservato dall’inganno e subentra ai sensi, perché essi non possono giungervi da soli in quanto non sono relazionabili a  determinate prerogative conoscitive. Determiniamo in quest’ambiente che la sostanza è l’oggetto di conoscenza dell’intelletto, mentre gli accidenti sono il soggetto della comprensione sensibile, uno conferisce con la forma sostanziale, i secondi si relazionano alla forma accidentale Principalmente la forma si distingue in due tipi: sostanziale e accidentale.
La forma sostanziale dà l’essere in modo assoluto (simpliciter) e il suo subietto (la materia) è un essere soltanto in potenza, invece la forma accidentale non dà l’essere in modo assoluto (simpliciter), ma una qualità o una quantità o un altro modo dell’essere; poiché il suo subietto (soggetto) è un ente già in atto.
Riepilogando, la forma sostanziale differisce da quell’accidentale dal punto di vista del subietto, perché la prima è il soggetto di se stessa, mentre la seconda lo riceve dalla sostanza, che funge da soggetto alla forma accidentale. La forma accidentale di per sé, può esistere solo se vi è la forma sostanziale che la produce, però non produce il soggetto, ma una qualificazione, un modo d’essere, conferendo il soggetto non in maniera assoluta, ma relativa. Se il soggetto muta anche se il suo accidente muta o scompare del tutto, esso non perisce in senso assoluto, ma relativo, perché l’essenza prima rimane.
E' chiaro che l’attualità si trova prima nella forma sostanziale che nel suo subietto; viceversa, l’attualità si trova nel subietto della forma accidentale prima che nella forma accidentale stessa: perciò l’attualità della forma accidentale è causata dal soggetto. Tal soggetto, poiché è in potenza, diviene il soggetto della forma accidentale; ma siccome è in atto la produce. Quanto detto, vale per gli accidenti propri e connaturali; mentre se parliamo degli accidenti estrinseci, allora il subietto ha esclusivamente la capacità di riceverli; poiché chi li produce è un agente estrinseco. In secondo luogo, la forma sostanziale e quella accidentale differiscono anche in questo, ove la materia è ordinata alla forma sostanziale, la forma accidentale è finalizzata alla perfezione del soggetto; perché ciò che è meno importante è sempre ordinato a ciò che è principale, quindi se una definisce l’altra precisa.
Oltre alle classi delle forme dobbiamo analizzare anche le classi causali della sostanza. Ogni effetto è preceduto dalla causa ed è un suo risultato, pertanto si definisce il divenire dalla causa all’effetto  na "determinazione della causa effettiva",che divenendo si traspone in "determinazione effettiva della causa". La prima muta per determinarsi, la seconda conferma determinandosi. La sostanza è  ausata, perché una causa l’ ha determinata, quindi la sostanza è l’effetto di quella causa. La causa prima è formale e la seconda accidentale, ossia la prima è in potenza e genera l’essenza della cosa,   entre la seconda è il risultato dell’effetto formale nel divenire che genera l’accidentalità. La causa accidentale è indiretta, per l’appunto accidentale, che dà delle determinate caratteristiche alla sostanza  he non alterano l’essenza, ma la perfezionano. Dio, pertanto è la causa prima di tutte e le cose e può far si che possano rimanere cause conseguenti anche se private da quelle precedenti Nel  rincipio di prima causa, Gilson afferma che Dio è Unico, Necessario, Primo e Semplice (Dio non è determinabile in delle categorie, ma possiamo dargli solo degli attributi in relazione alla nostra natura,  erché per dargli delle categorie dovremo essere  come lui ossia infiniti.Questo è inammissibile, perché l’infinito è uno e non possiamo per logica ammettere più esseri infiniti.), Egli è sostanza  ntelligibile, e proprio il primo atto della sostanza intelligibile è quello di conoscere. L’atto del creatore, è l’atto primo con il quale Dio conosce, quindi Dio per primo conosce se stesso e questa  onoscenza di sé genera il “Primo causato” (ossia l’essere causa di se stesso). Questo Primo Essere causato è una sostanza intelligibile, pertanto è un’intelligenza poiché è Causato, Egli è per Sé  possibile (ammette ogni possibilità), ma di fatto, è necessario in virtù della sua stessa causa. Apriamo una parentesi sugli enunciati di essere contingente o necessario.  I primi sono esseri causati o concausati e potrebbero anche non esistere, tant’è che il mondo continuerebbe ugualmente ad esistere. Il contingente, non è importante al fine costitutivo dell’oggetto, ma non è nemmeno accidentale  alla cosa stessa, bensì è causato indirettamente dalla sua o da più essenze. Il contingente opera all’interno del necessario che è indispensabile al proprio divenire. Il contingente come tale non ha in sé  la ragione della propria esistenza, perché codesta si trova in altri, poiché se tal ragione si trovasse in lui sarebbe un essere necessario e non contingente. Al mondo niente è necessario, perché il tutto è  un ciclico nascere, crescere e morire, la vita pertanto si alterna continuamente senza che il mondo per questo perisca. Il “necessario” di per sé, preso singolarmente è contingente perché causato da  altri. Questo processo porta ad ammettere l’esistenza di un essere che esiste in forza di se stesso, incausato, immobile, infinito, in cui Egli stesso è la sua stessa ragione di vita ed Egli stesso è l’essere  di se stesso, un essere non contingente, perché esiste in quanto esiste. Ogni cosa pertanto presente nel mondo è indifferente se presa singolarmente sia esista, sia non esista, orbene un   principio stabilisce che da una cosa priva di una determinata attività non se n’avrà mai nulla. Pertanto, perché ne venga fuori qualcosa è necessario un intervento esterno alla cosa stessa che le tolga  uest’indifferenza. Cosicché, possiamo procedere all’infinito e identificheremo la verità prima in ogni singolo elemento mondano analizzato quiddicamente e avremo che nessun essere si può  generare o venire all’esistenza, generandosi da solo ed essere la ragione stessa della sua esistenza. Per spiegare, l’esistenza contingente della prima causa cosmica, bisogna ammettere l’intervento di  un elemento non contingente, dettame di un essere assolutamente necessario. Martin Heidegger afferma che se l’essere è inteso sotto il punto di vista del progettare, si modifica anche la concezione  degli esseri intramondani, poiché non sono più delle presenze che sussistono indipendentemente da noi, fini a se stesse, ma è l'uomo che li fa venire all'essere poiché strumenti in funzione del  progetto. Proprio “l’esserci”, definito il Dasein, è l’ente privilegiato. L’unico che si mette in questione e si pone il problema dell’essere è l’uomo, poiché è gettato nel mondo, sottoposto alle relative  limitazioni, ma in grado di trascenderlo con un atto di libertà, facendone il progetto d’atteggiamenti e azioni possibili. Giovanni Paolo II definisce l’esistere nell’esistenza e non l’esistenza nell’esistere  (come sosteneva Cartesio) tant’ è che non è il pensare che dà la certezza d’essere, ma è il fatto d’essere che genera l’ideare. E’ logico, perché l’esistenza genera l’ ideologia,atto dell’esistere, e non l’ esistere genera l’atto esistenziale.
Ritornando al principio di prima causa, quest’intelligenza pensa in primo luogo ciò che già conosce: Dio, e proprio quest’atto di conoscenza genera la seconda intelligenza separata. La prima  ntelligenza pensa se stessa come necessaria, per sua causa, e nell’atto concepisce l’anima della sfera contenente il mondo. Essa si pensa come possibile in se stessa e genera il corpo di questa sfera. La seconda intelligenza procede allo stesso modo e conoscendo la prima genera la terza e conoscendo se stessa come necessaria genera l’anima della seconda, mentre conoscendosi come possibile  enera il corpo di questa sfera. Questo processo continua fino all’ultima intelligenza separata,  quello che presiede la sfera della “luna”, riconosciuta come “l’intelletto agente”. Quest’intelligenza chiude  la serie delle emanazioni, perché essa non ha più la potenzialità di creare altre sfere, quindi irradia le forme intelligibili, impadronendosi della materia che è disposta a ricevere codeste forme.  Attraverso la materia, l’ultima intelligenza, genera gli esseri che percepiamo con i sensi. Ogni essere ha un’anima che anima il suo corpo, è una sostanza emanata dall’anima dell’ultima sfera e questa considera, paragona e classifica le immagini che si pongono sotto la sua analisi sensitiva. Importanti sono state le diverse analisi poste nel corso dei secoli sull’intelletto agente dall’aristotelico  Avicenna, Alessandro D’ Hales, Averroè, Alberto Magno e in particolare S. Tommaso che nel “De unitate intellectus contra Averroistas”, afferma che l’intelletto è separato, privo di corporeità e sia  l’intelletto agente che passivo, appartengono all’individuo, cosicché sia l’immortalità sia la capacità conoscitiva dell’anima sono salvaguardate perché tutt’uno con la sua essenza. L’intelletto agente,  pertanto è presente in ogni essere, ma ha un agire differentemente diverso nel formare le specie intelligibili da quelle sensibili, ossia conforma il conoscente al conosciuto. Questo processo, com’è  stato proposto, avviene attraverso, la considerazione, il paragone e la classificazione, collocando la conoscenza in essere a quella già in essere dello standard conosciuto. Nel processo conoscitivo, la  sensazione ricava dalla materia la forma sensibile che ha dato luogo all'immagine conservata nella memoria; dall'immagine l'intelletto ricava la forma intelligibile, cosiddetto concetto o forma  universale. Ciò significa che l'intelletto è in grado di intuire, nell'immagine particolare, la forma universale o essenza. Tuttavia, non può tradurre da sé questa possibilità in atto. Per realizzare in atto  tale conoscenza intellettiva che possiede solo in potenza (vale a dire per cogliere il concetto universale nelle cose in atto), esso, infatti, ha bisogno che l’intelletto agente o attivo sia sempre in atto, ciò  è in potenza solo all'intelletto divino, luogo di tutte le forme o concetti. In questo senso, l'intelletto (quello passivo) dell'uomo è come una tavoletta di cera sulla quale i sensi incidono le loro immagini  che ha la possibilità di trasformarle attivamente in concetti, ma esige per far ciò di un'illuminazione che lo muova. L’intelletto passivo, invece è pura potenza o possibilità di conoscere la forma  universale (in altre parole il concetto o l'essenza) delle cose. Questo tipo d’intelletto non può mettere in moto da se stessa tale conoscenza attiva. Ricapitolando, l’intelletto agente esprime l’atto,  l’intelletto passivo, la potenza, perché potenza e atto nell’uomo non si esprimono in simultaneità, poiché confinati nel divenire (il divenire di potenza e atto di Platone). In quest’ambiente subentra  l’“ilemorfismo”, inteso come l’anima in potenza di un corpo, quindi l’unione tra forma e materia. Per Aristotele l’anima rappresenta il motore del corpo che attraverso le sue potenzialità, realizzano  l’atto della volontà nel corpo per interagire col sensibile. Si deduce che l’uomo è causato dalla potenzialità dell’ultima intelligenza separata (l’ultima sfera), che irradia in lui la sua conoscenza per utilizzarla come punto di partenza per il suo conoscere e conoscersi. E’ evidente che l’uomo è formato da tre tipi d’elementi sostanziali lo spirito in primis che viene dalla prima intelligenza, Dio, l’anima dalla seconda: il cielo dove operano le creature strumento della Verità, e il corpo dalla terza, mondo della materia. L’uomo è frutto della terza sfera che lo ha generato, ed è il mezzo con cui la  terza sfera conosce e fa conoscere se stessa, generando attraverso  egli quelle forme irradiate, che essa stessa non è stata in grado di produrre sottoforma d’intelligenza separata. Potremo definire il  nostro ambiente essenziale, un motore statico rispetto agli stadi superiori, perché ogni atto deve divenire in relazione al tempo e quando diviene è finito rispetto alla potenza. La morte, infatti, si  differenzia da ogni altra potenza e possibilità di scelta che l'uomo può trovarsi ad avere nella sua, perché non solo è una possibilità permanente con cui dovrà misurarsi in ogni modo, ma è l'unica che,  quando si realizzi, annulla e rende impossibili tutti le altre: morendo si perde ogni altra possibilità di scelta. Solo la morte, però, è costitutiva dell'esserci come tale, mentre le altre possibilità non  realizzano totalmente la sua vera essenza. L’ultima intelligenza separata, ha posto una causa formale e una generazionale (di forma e di conservazione della specie) in ogni Ente materiale, per far  raggiungere il fine a tutte le creature. Tali cause si attuano con il primo atto della sostanza quando la forma fissa, la determinazione costituiva categoricamente sia nel genere sia nella specie. Ogni  Ente, pertanto è causato, e riceve una classificazione, considerata al suo genere naturale collocato, divenendo ciò che è, senza tutto ciò che non è. Il conoscente, conosce attraverso i sensi il mondo in  cui è inserito, e conosce se stesso attraverso l’intelletto, ma incontra squilibrio tra la sua potenzialità e l’atto che lo detiene immobile in questa realtà finita. Qualsiasi intelletto finito, non può  conoscere o comprendere realtà superiori alla sua, per condizione di causa generativa, ma può tentare di lambire una lontana conoscenza di loro. Pertanto l’essere non può comprendere o conoscere  con le proprie forze naturali realtà diverse dalla sua, ma può farlo soltanto attraverso “l’illuminazione”, un rafforzamento dei lumi della ragione per azione Divina. L’uomo essendo contingente e non  necessario è stato donato al mondo, perché se ogni legge fosse necessaria con la finalità esistenziale in se stessa, l’uomo o sarebbe da

sempre esistito o non sarebbe mai esistito. L’uomo può conoscere Dio anche attraverso

l’imperfezione sotto privazione perfettibile delle cose del mondo. Ogni ente o cosa può

essere circa buona o circa vera, pertanto la nostra misura di sommo bene o somma verità

che prendiamo come riferimento di confronto è quella perfetta che solo in Dio risiede.

Deduciamo che ogni cosa è destinata ad un ordine finale, per fine intendiamo quel bene

in vista del quale un’opera, perciò tutti i fattori stimolati dalle attività dell’agente hanno

ragione di fine. Basta guardare in natura per vedere che tutto è ordinato ad una

finalità, e se anche un fine ci sfugge bisogna attendere perché egli riveli il suo

ordine finale. L’agire della natura di Dio, non va ricercata nell’inanimato o nelle cose

mobili prive di moto e anima, ma nel nostro io perché Dio non ha motivo di agire su un

qualcosa che esiste per un fine mondano, ma ha motivo di agire su un essere che gli

assomiglia così tanto che gli ha donato la vita. L’esistenza è l’esserci, attraverso il

divenire con l’atto della vita, che rende partecipi alle operazioni della stessa, secondo i

propri bisogni e necessità, adattando e adattandosi, con ordine razionale e libertà di

volontà. L’uomo realizza se stesso secondo la sua natura individuale e secondo le

proprie inclinazioni intellettuali tendenziose al fine già predestinato.

Ritornando alla transustanziazione, il miracolo dell’Eucaristia, pone due difficoltà, ossia

la possibilità e la coerenza.

La possibilità, esprime l’onnipotenza di Dio, poiché provvede Dio stesso a dare l’essere

agli accidenti, quando normalmente è comunicato dalla sostanza.

La causa prima degli accidenti e di tutti gli esistenti è Dio, mentre la causa seconda è la

sostanza, essendo gli accidenti causati dai principi della sostanza, Dio può conservare

nell'essere gli accidenti, quando è stata tolta la causa, ossia la sostanza. In breve, si

afferma che Dio può far sì che esistano accidenti senza soggetto.

Per quanto riguarda la coerenza, ci si chiede se è legittimo continuare ad assegnare il

nome d’accidente, alle realtà del pane e vino, poiché non hanno più le proprietà

essenziali che le caratterizzano, “l’ inesse” (relazione). Questo si risolve distinguendo

l’essere dal suo modo d’essere, proprio il modo d’essere dell’accidente è l’ inesse (la

relazione del suo modo di essere con il soggetto, la sostanza), ma ancor più importante

per la natura stessa dell’accidente è il non avere di suo il proprio atto d'essere, ma di

riceverlo dalla sostanza. Proprio perché l’essere lo riceve dalla sostanza, questo secondo

elemento rimane salvo anche nel miracolo eucaristico: gli accidenti delle specie

eucaristiche non hanno l'essere in proprio, ma lo ricevono direttamente da Dio. Dunque

gli accidenti del pane e del vino, rimangono inalterati perché è Gesù stesso a fungere da

soggetto, poiché è proprio la seconda persona dell’ipostasi trinitaria, che s’immola

nell’Eucaristia, sacrificandosi per noi, divenendo Corpo e Sangue.

Possiamo comparare le specie eucaristiche all’unione ipostatica del Verbo, perché la sua

umanità manca della sussistenza personale, in ugual modo nelle specie eucaristiche

viene a mancare la sussistenza naturale delle sostanze. Così come l’umanità di Cristo

rimane integra nella sua natura, ugualmente nelle specie del pane e del vino, tutti gli

accidenti permangono integri nella loro natura per svolgere le funzioni sacramentali.Al

cessare di suddette operazioni si ha la “riassunzione della sussistenza naturale”,

ossia durante l’Eucaristia è Cristo che si sostituisce alla sostanza naturale divenendo il

soggetto degli accidenti innalzando il pane e il vino all’ordine divino, ma al cessare delle

operazioni eucaristiche, gli elementi ritornano nell’ordine naturale.

La Divina Provvidenza interviene senza sconvolgere l’ordine naturale delle cose, e lo fa

nella maniera indispensabile e meno invasiva possibile, perché ciò che le interessa sono:

la sostanza e il genere che rivestono il pane e il vino. Rimangono invariati gli accidenti

perché essi hanno un ruolo indicativo sia nell’immagine sia nella concettualità della

forma degli elementi naturali che rivestono.La conversione sostanziale è simultanea alle

parole proferite dal sacerdote, “Questo è il mio corpo” e “Questo è il mio sangue”,

confermando l’unione non unicamente del corpo, ma anche dello spirito di Cristo tant’è

che il corpo e il sangue sono contenuti sostanzialmente e non quantitativamente, in

rapporto all’essenza. Il significato è chiaro “chi mangia di me vivrà in eterno”, le parole

non hanno intenzionalità operativa, ma efficace, come l‘idea dell‘intelletto pratico, che è

fattiva delle cose, sta all‘idea dell‘intelletto speculativo, che invece deriva dalle cose:

infatti «le parole sono i segni dei concetti», come dice Aristotele. Allo stesso modo i

concetti dell’intelletto pratico non presuppongono le realtà concepite, ma le compiono,

così la Verità di questa proposizione non presuppone la realtà significata, ma la compie:

tale è, infatti, il rapporto della parola di Dio con le realtà che produce. Non si dice questo

“pane è il mio corpo”, ma senza specificare il soggetto con qualche sostantivo, bensì

adoperando come soggetto il solo pronome, che indica la sostanza in genere senza

specificazione, vale a dire senza una forma determinata.

Il tutto è rapportato alla Verità prima, che si svela nel momento in cui ci conformiamo

ad Ella.

Kant affrontando il modo d’essere della realtà, approva che le leggi della natura non

sono vere di per sé, ma sono vere perché sono, e finché sono rimangono verità. Tant’è

che la verità si manifesta per opera di colui per il quale ha un senso, infatti, Kant

sostiene che ciò accade “in virtù del suo essenziale modo d’essere, conforme

all'Esserci e ogni verità è relativa all'essere dell'Esserci”; perché “ la verità è negli

occhi di chi la guarda”.

“Se il dubbio vela, la verità svela”, scoprire qualcosa significa renderlo evidente,

portarlo in cospetto dell'esistenza sottraendolo al condizionamento del libero arbitrio che

crea dualità nell’emettere il giudizio. S. Tommaso D’Aquino sostiene che quando

l’intelletto giudica che la cosa è conforme alla sua apprensione inizia a dire il vero, ossia

si sottrae quell’indifferenza che rende “contingente” la cosa, svelando la sua

necessarietà, l’essenza prima che l’ ha determinata e la determina per il fine che porta in

essere. Questa necessarietà è dimostrabile o con la fede o con la razionalità della logica,

tant’è che S.Bonaventura da Bagnoreggio sostiene la fede come logica e S. Tommaso la

logica con fede, se per il primo è importante amare Dio per il secondo è importante

vedere Dio. Per S. Bonaventura, il bene è il vero e la volontà s' impone sull’intelletto,

per S. Tommaso, il vero è il bene ed è l’intelletto che s' impone sulla volizione.

Nel primo echeggia la libertà dell’uomo, nel secondo la razionalità dell’individuo.

Tra la volontà e l'intelletto vi è una certa nobiltà che si attesta o all’una o all’altro,

infatti, per S. Tommaso l’intelletto è più nobile, poiché specifica la natura razionale e la

libertà d’arbitrio, mentre per Duns Scoto, la volontà è più nobile dell’intelletto perché

attesta la dignità dell’uomo com’essere libero. La tematica sulla volizione divina, era

stata già trattata da Alessandro D’ Hales nella Summa fratris Alexandri Halensis, in cui

si evince l’aspetto della volontà, quale promotrice dell’atto Divino, sostenuta poi anche

nel diritto politico derivato da quello naturale (…)

La nobiltà non si trova né nella volontà né nell’intelletto, ma nell’atto che qualifica

l'attitudine in potenza dell’attuatore. E’ la mozione promotrice dell’atto che nobilita a

posteriori la stessa in potenza, ossia l’azione, colei che porta in sé il bene con il suo atto

finale nobilitandosi.

Giovanni da Duns sosteneva l’aspetto della volontà dell’essere, espressione di libertà

nell’uomo, ma tutti questi aspetti, sono qualità, modi d’essere, rapportati ad un unico

genere che trova riscontro nella natura soggettiva d’ogni uomo. Questa natura, com’è

stato precedentemente discusso, è ravvisabile nell’intelletto agente che è diverso da ogni

soggetto conoscitore, cosicché l’uomo, nella conformità agli esseri mondani riesce a

cogliere significati simili, ma non identici. Quando, però l’anima è l’intelletto sono

conformati sotto la guida della Somma Verità, l’essenza determinatrice colta, è identica

in ogni individuo, (i Santi) dimostrazione che il tutto proviene da Dio per sua causa.

Ogni essere creato proviene da Dio, ma prima della creazione cosa vi era?

Per alcuni termini Dio non crea dal nulla, ma dopo il nulla, in altri termini Dio non crea

cronologicamente dall’ imponderabile , poiché Dio esisteva già dapprima, essendo

incausato.

Ogni tesi sulla nullità, decade per contraddizione di termini, poiché se Dio crea dal nulla

o dopo di esso, prima di Dio c’era il nulla! quindi Dio è venuto dopo, ed è causato?

Codesta definizione è contraddicente per ciò che è stato prima dimostrato, il nulla

esprime in questo caso, l’assenza di una determinazione definente dell’esistenziale e non

una privazione in essere di un qualcosa già agente.

Si può dare un genere o una specie categorici ad una dimensione inesistente priva di per

sé d’ogni determinazione costitutiva (essenza)?

Se dovesse esistere il “niente” dovrebbe avere una sua essenzialità dimensionale e

metafisica! Per questo, siamo noi che per deficienza intellettiva non riusciamo a definire

il prima del creato, dandogli una collocazione di “nulla e imponderabile”. Prima del

creato pertanto, non vi poteva essere il nulla, ma l’indefinito, che diviene definito con la

messa in atto del creato, ossia le qualità di ciò che Dio avrebbe creato da se stesso.

L’indefinito, non va inteso come ciò che non ha definizione, ma come ciò che attende di

definirsi divenendo, per affermarsi con la sua esistenza. Infatti, esistere conviene solo a

ciò che ha l‘esistenza: che è quanto dire a ciò che sussiste nel proprio essere. Proprio per

questo si afferma che “la prima fra le realtà create è l‘essere”. Questo termine non

indica una creatura determinata, ma il carattere proprio, sotto il quale la creazione

raggiunge il suo oggetto. Infatti, una cosa è detta creata poiché è ente, non perché è tal

ente: poiché la creazione è l‘emanazione di tutto l‘essere dall‘ente universale. Per ente

intendiamo “le forme e gli accidenti” ossia le determinazioni costitutive e gli effetti

derivanti (per accidente) da loro, che però non soffrono d’influenza incisiva sulla finalità

dell’essenziale. Dio crea, dalla sua idea, dall’amore verso se stesso che dona alle

creature, rendendole un suo partecipato. Proprio per questo crea l’uomo a sua immagine

e somiglianza, perché prende come modello proprio Se stesso, per impartirgli un

partecipato della sua perfezione. Da questo comprendiamo che l’importanza è nell’idea

che diviene atto. La messa in atto dell’idea, non indica che l’idea è messa in atto

secondo principi pre-esistenti, ma è messa in atto insieme ai suoi principi che la

determinano e la costituiscono (simultaneità dell’agente). Pertanto la creazione del

mondo è intesa come messa in atto dell’esistenza. Di tutto il tempo non esiste che

l‘istante presente (il nunc), quindi il tempo non può essere prodotto che secondo un certo

istante: non perché nel primo istante vi sia il tempo, ma perché dall’istante ha avuto

inizio il tempo. Lo stesso tempo non è altro che l’attimo, l’istante, in cui la materia da

potenza diviene atto e da atto ritorna potenza per divenire di nuovo atto. Proprio

dall’istante dopo, riusciamo a collocare la nascita delle cose ed a stabilire un primo e un

dopo nel creato. Pertanto, l’universo non fu creato prima o dopo il tempo, ma furono

creati simultaneamente, poiché “Dio creò il cielo e la terra in principio”, vale a dire

prima di tutte le cose. I termini cielo e terra non indicano solo aspetti della realtà

materiale, ma anche di quell’immateriale. Infatti, Egli crea il cielo empireo, la materia

corporea (espressa dal termine terra), il tempo e le nature angeliche. Il compito di

creatore spetta solo e soltanto a Dio, poiché siamo tutti creature e non creatori. L’uomo

che genera l’altro uomo, non crea un suo simile, ossia non è creatore dell’essere, ma è

causa dell’essere. È l’amore di due persone causa (in potenza) dell’essere (in atto), il

quale amore è visibile nel figlio che n’è la sua immagine testimonia. L’amore di Dio

pertanto è universale, ed è riversato sull’universo quale primo atto della Sua volontà.

Perciò da tutte le creature emerge l‘amore, quale prima radice. Non si desidera, infatti,

se non il bene che si ama, e non si gioisce che del bene amato.

La corrente panteistica sosteneva che Dio era presente in ogni cosa, però questo portava

dalle questioni con soluzioni paradossali. Per uno dei tre principi dell’immensità di Dio,

in ragione della sostanza (Dio è immenso per tre ragioni: potenza, scienza e sostanza),

ogni sostanza è in Dio, perché da Lui creata e pertanto derivata. Proprio perché ogni

cosa è in Dio, Lui può in lei, facendo sì che nella transustanziazione accidenti possano

essere senza soggetto naturale, acquisendo direttamente la loro natura dal Divino Essere,

divenendo accidenti di una sopranatura assoluta.

Domenica, 2 Giugno, 2013 - 00:04