'Il cappello di paglia. Gente della mia terra…', l'ultimo libro di Mimmo Martina

La prefazione è di Antonio De Donno. Acquistando il volume si aiuta l'Associazione per la Lotta all'Ictus Cerebrale

Il cappello di paglia. Gente della mia terra… Il libro, EditPan, d.a., Galatina, giugno 2013, pagg. 224, €10,00, è l’ultimo lavoro della trilogia di Mimmo Martina dopo “Il sonno è cibo” e “Storie salentine dal vissuto di un novantenne”. Il testo è stato presentato dal Presidente, Michele Bovino, dell’Associazione A.L.I.Ce. (Associazione per la lotta all’Ictus Cerebrale) alla quale è andato il ricavato della vendita del libro. La presentazione, con il patrocinio e la collaborazione del Comune, è avvenuta l’8 settembre 2013, ore 19:30, presso il Palazzo della Cultura “Z. Rizzelli”.
All’evento, oltre all’autore, hanno relazionato: il Sindaco Cosimo Montagna, l’Assessore alla Cultura Daniela Vantaggiato, il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Lecce  Antonio  De Donno, il Presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone.
Veniamo, ora al libro. Antonio De Donno nella prefazione riporta i punti più significativi del racconto fra cui la semplicità di Mimmo nel riportare: eventi, personaggi, tradizioni, storia e valori umani. Valori posseduti sia dai poveri e sia dai ricchi, però alcuni di questi ultimi, occupando importanti posti di lavoro come dirigenti e/o amministratori politici, sono stati nel passato e anche oggi
esempi da non imitare.
Il Martina, già nell’introduzione, evidenzia la sua passione per la ricerca di testi storici sia nazionali che locali, infatti, i grandi avvenimenti del passato sono la somma di tantissime microstorie e quella
di Cici rifletta quella meridionale con diverse sfumature. L’autore parla soprattutto dei poveri, poveri sotto l’aspetto economico ma non nell’anima e nell’onestà intellettuale. Poveri che fino alla metà
dell’Ottocento sono stati trascurati; autori che hanno scritto migliaia e migliaia di libri parlando di re, regine, cavalieri, poeti, scienziati e di grandi personaggi. Ma, qualcuno dopo il 1850 si è accorto che esistevano anche i poveri con la loro cultura contadina, con i loro usi e costumi, con le loro cantilene, con i loro scritti dialettali e soprattutto anch’essi erano e sono figli di Dio.
In Francia, infatti, nasce il Naturalismo (1865) con il romanzo Germinie Lacerteux dei fratelli Jules ed Edmond de Goncourt.
Nella prefazione dell’opera si parla del “quarto stato”, cioè quello dei poveri e dei diseredati; anche loro hanno diritto a diventare protagonisti della letteratura. Il Naturalismo, in Italia, prende il nome
di verismo e il massimo esponente è Giovanni Verga; fra le tante sue opere ricordiamo Rosso malpelo, Nedda e Mastro-don Gesualdo. La prima opera tratta di un ragazzino che veniva allontanato da tutti perché, oltre ad essere povero, portava sfortuna perché aveva i capelli rossi. Morirà in una cava così com'era morto il padre. La seconda, Nedda, veniva scostata da tutti persino dal parroco del paese poiché occupava il gradino più basso della società. Mastro-don Gesualdo nato povero diventerà ricco ma morirà infelice perché non amato dalla moglie e dalla figliastra.
L’introduzione termina con il massimo comandamento cristiano: ama il tuo prossimo come te stesso. Amore verso i genitori, ma anche sapere perdonare chi ti odia.
L’argomento del primo capitolo è “La valigia” del novantenne Cici. Questa scatola di cartone contiene semplici oggetti che apparentemente sembrano insignificanti: piccoli manoscritti, nastrini e mostrine militari, fotografie, santini, cartoline, lettere, ritratti femminili, dediche, libri di poesie, antichi giornali e Il cappello di paglia. Mimmo riflette molto su quella ricchezza del nonno Cici, ricchezza di piccole cose, ma che rappresentano la sua vita, i suoi ricordi indelebili da: bambino, ragazzo, giovane, adulto e anziano. Sono ricordi pieni di sentimento, di speranze e di lotta per vivere.
Martina intuisce che tutti quei fogli ingialliti sono testimoni di circa mezzo secolo ed egli resta attonito nel leggere, sul retro di una copertina nera di un quaderno, il titolo: Il cappello di paglia.
Nel quaderno troviamo di tutto: riferimenti storici nazionali riferiti alla guerra, aneddoti, termini e intere frasi dialettali, tradizioni, costumi, poesie, ma soprattutto grandi valori di cui, oggi, il mondo ha bisogno.
All’interno delle pagine troviamo termini dialettali: maddhra (madia), fezza (sedimento del vino), mustazzoli (dolci di cacao), cupetari (chi produceva dolci di mandorle e zuzzhero), cumpanaticu (alimento che si mangiava con il pane, a volte un figlio chiedendo alla madre il cumpanaticu per risposta riceveva: pane, scorza e mollica). Il dialetto fino a qualche decennio fa è stato trascurato, anzi i genitori vietavano ai figli di parlarlo, ma successivamente è stato rivalorizzato a tal punto che, oggi, s'insegna anche in alcune scuole. Ha fatto bene l’autore a riportare la lingua parlata dal popolo coevo. È molto importante conoscere la nostra lingua dei secoli scorsi perché possiamo leggere ed interpretare tantissimi libri che parlano di Galatina.
Il primo libro storico galatinese è “Galatina Letterata” scritto dal frate Alessandro Tomaso Arcudi, stampato nel 1709 presso la Stamperia di Giovan-Battista Celle. Il prezioso testo riporta 44 illustri personaggi galatinesi, fra cui: gli Arcudi, Giovan Cavazza, Pietro Colonna, i Mezio, Stefano Pendinelli, i Vernaleone, Marc’Antonio Zimara ed tanti altri.
Ne “Il cappello di paglia” non mancano notizie storiche. Troviamo vari argomenti della seconda guerra mondiale vissuti da Cici. Egli nel 1940 si reca al distretto militare di Bari e viene mandato
a combattere sul fronte greco-albanese, nel 1942 su quello russo; nella mente del novantenne sono rimasti indelebili il 1946, il referendum, l’avvento della televisione, alcuni film sul neorealismo,
nomi di grandi attori e attrici, di politici come De Gasperi, della trasmissione Lascia o raddoppia di Mike Bongiorno.
La valigia contiene diversi fogli fra cui una pagina di giornale galatinese del 1901 della “Provincia Cattolica di Terra d’Otranto” con il titolo di apertura “I MOTI SOCIALI DI CRISTO RISORTO” e nel sottotitolo “LA DISPERAZIONE DELLE MASSE PROLETARIATE GALATINESI”.
Mentre appartiene al lontano 1903 la notizia di “una discussione degenerata in zuffa popolare, viene scambiata dalla polizia come sommossa politica e spenta nel sangue”. Si parla del fenomeno del tarantismo “Una ragazza, alta, sinuosa, lunghi e ricci capelli neri, espressione della selvaggia bellezza del Sud, è uscita dal gruppo e ha iniziato a cantare: Santu Paulu meu te le tarante, ca pizzichi le caruse …”. Il libro è ricco di fotografie e cartoline d’epoca.
Fra i tanti argomenti, riportati da Martina, la mia attenzione si è fermata su: la collaborazione familiare, il diritto allo studio e il fidanzamento.
La prima era fondata sul detto “bisogna mandare avanti la baracca” e quindi tutti i componenti della famiglia dovevano collaborare. Gli uomini erano destinati ai lavori più pesanti e a guadagnarsi
“la sciurnata” (una giornata di lavoro) lavorando per i “signori”; le donne facevano di tutto e, oltre a gestire la casa, inventavano alcuni piatti come “il pane cotto” (riciclo del pane duro e ammuffito, bagnato e condito con un po’ di olio e sale), si dedicavano nella raccolta delle olive, della vendemmia e del tabacco; i ragazzi erano occupati per i lavori più leggeri, ma comunque faticosi per loro
come raccogliere pietre o altro. Solo alcuni di essi poteva conquistare la licenza elementare, mentre fino agli anni Cinquanta del secolo scorso le ragazze dovevano imparare a cucire, ricamare,
uncinetto, tombolo e tessere. Conquistare una ragazza era una grande avventura e si dovevano superare diverse fasi: corteggiamento, trasitura (l’uomo poteva entrare in casa sotto l’attenta vigilanza
della madre) e lo sposaliziu (il matrimonio).
L’uomo, generalmente, passeggiava nei paraggi della donna, infatti, un antico proverbio popolare diceva: “L’ommu, quando passeggia, è ‘nnamuratu, la femmina, quando canta, vole maritu”. Cici nel suo diario non trascura le persone che vivevano nell’ozio, parlando e sparlavano degli altri, e giustamente li chiama carzilarghi (fanfaroni, chiacchieroni), antico soprannome per i galatinesi.
Nelle ultime pagine, l’autore Mimmo Martina riporta integralmente il brano poetico scritto da nunnu Cici. “È autunno. Cammino con passo stanco e lento per le tortuose viuzze del centro storico, ricoperte dall'antico basolato, appoggiato al mio bastone; i miei capelli bianchi che spuntano dal mio immancabile cappello di paglia, non brillano come i miei occhi grigi, d'infinito amore e  comprensione per chi è rimasto. Il sole indugia ancora un po' nel cielo, una bava di vento allevia la soffocante afa di questo pomeriggio di tarda estate. Penso con infinita tristezza a tutti coloro che ho conosciuto nella mia vita, tanta gente.
Tornano i ricordi. Non posso cancellare la memoria. Tante immagini mi passano davanti agli occhi. Ricordando, sono felice d'essere vissuto. Rivedo la mia vecchia casa: quattro mura che hanno racchiuso il calore e l'affetto della mia famiglia. Sento quel richiamo di intimità e la ricordo con nostalgia...”.
L’autore se ha scelto di scrivere la trilogia su “Gente della mia terra” e perché sicuramente condivide, apprezza e ama il passato, grandi valori della famiglia, del lavoro, del risparmio, della cultura, della vita semplice. Martina non si è accontentato di leggere solo gli appunti del nonno, ma ha frequentato l’Associazione Caduti in Guerra e altri gruppi di anziani ed ha costatato che i ricordi degli uni e degli altri coincidevano.
Le ultime parole di Mimmo Martina, dell’8 settembre 2013, hanno sottolineato che tutti noi dobbiamo conoscere il passato per comprendere e valorizzare gli aspetti positivi del passato e quelli del presente affinché ognuno di noi, in quanto UOMO deve dare il suo contributo per migliorare il futuro. Ciò si ottiene prendendo gli aspetti migliori del passato, farne un credo e potenziarli per i posteri.
Il pensiero dell’autore è in sintonia con quello del Papa Francesco, egli ha ripetuto più volte: “vogliamo una Chiesa più povera per dare ai poveri, i poveri di spirito, cioè quelli che soffrono come: i  carcerati, i drogati, i depressi, i diversi abili e gli ammalati”.
Acquistando il libro “Il cappello di paglia. Gente della mia terra…” aiutiamo l’A.L.I.Ce. che aiuta coloro che sono stati colpiti dall’ictus cerebrale. Una buona azione che ci rende felice e arricchisce
il nostro spirito.

Domenica, 27 Ottobre, 2013 - 00:02