Cuore di mamma, ritornerò
Quarantena, giorno 38. Distanziamento sociale non imposto, giorno 53. Tempo intercorso dall’ultimo abbraccio di mia madre, 2 mesi. Giorni rimanenti prima del prossimo, di certo altri 20, poi… chi può dirlo? Sono arrivata a Parma con il Freccia Argento del 14 febbraio. Quella sera il mio fidanzato mi ha portata a cena fuori per festeggiare San Valentino. È stata l’ultima cena fuori, se l’avessi saputo avrei preso anche il dolce. Due giorni dopo siamo partiti per Sirmione, quando ancora la parola Lombardia non faceva paura. Una giornata intera alle Terme: 7 gradi fuori, 37 in acqua. Avevamo bisogno di un po’ di relax e spazio per noi, ché la vita ci tiene distanti per la maggior parte del tempo.
Neanche una settimana dopo assistevamo inermi a un remake de “La Casa di Carta” con protagonisti Codogno e Vò che disseminavano il panico. Da quel momento è stato come se tutto ciò che era successo prima fosse appartenuto alla vita di qualcun altro, o forse alla nostra, ma in tempi così lontani da fare fatica anche a ricordarli.
Da quel giorno abbiamo smesso di uscire da casa e iniziato a cucinare in maniera spasmodica. Io almeno, perché lui ha continuato ad andare a lavorare normalmente (erano i giorni di quell’iniziativa geniale chiamata #Parmanonsiferma) per poi essere disinfettato dalla testa ai piedi dalla sottoscritta a ogni rientro.
Tutti i giorni sino al 7 marzo, quando è venuta fuori la bozza di un decreto che includeva Parma nella zona rossa dal giorno dopo, con tutte le restrizioni del caso. Il panico. Avevo il viaggio di ritorno previsto per l’indomani. Un giorno solo, cavolo. Non mi permetteranno di tornare. O forse sì, si può raggiungere la propria residenza. Ok, sono salva.
Assalto ai treni. Esodo di migliaia di persone che fanno rientro al Sud. No, diavolo, che è statisticamente provato che qualcuno di voi il virus lo abbia addosso e lo stia portando a casa mia. Magari ce l’ho io, magari rimando il rientro, ma sì il 3 aprile sembra lontano, ma ce la posso fare, togliamoci lo scrupolo.
Mio padre è d’accordo, il cuore di mia mamma meno. Tanto faccio quello che decido io.
Qualche giorno dopo l’Italia intera si tinge di rosso. Meglio così, almeno siamo più protetti tutti. “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci più forte domani” dice in tv un uomo il cui viso tirato diventerà presto familiare. Facciamo che ci riabbracciamo a Pasqua allora, un piccolo sforzo.
Pasqua è stata due giorni fa. Niente abbracci, ancora. Ho festeggiato con il mio ragazzo e i suoi, nostri oramai, coinquilini. Uno studente e un infermiere, ché avere un infermiere in casa di solito fa stare più tranquilli, ora un po’ meno, ma non glielo si dà a vedere.
Abbiamo festeggiato con dei cannelloni al forno che hanno fatto di me l’eroina della giornata, che Dio benedica i tutorial di Giallo Zafferano e tutti noi. Ci siamo scolati due bottiglie di vino in quattro, come avevamo fatto qualche giorno prima per festeggiare i trent’anni del mio fidanzato, rimandando anche quella festa che avevamo organizzato a casa con tanta attenzione. Dopo pranzo, ho coordinato tutta la famiglia in videochiamata, che essere così in tanti è sempre bello, ma a volte anche scomodo. Ce l’abbiamo fatta, comunque. E forse, pur essendo sparpagliati in varie regioni, non ci siamo mai sentiti più vicini di così.
Ieri, allo stesso modo, la scampagnata di Pasquetta è avvenuta su Skype, con gli amici di sempre, perché ci sono tradizioni che non si possono rompere nemmeno in caso di pandemia. Qualcuno sul balcone, qualcun altro alla griglia in cortile, tutti sorridenti comunque, anche quei due che ancora non hanno chiaro se e quando potrà avvenire quel matrimonio che organizzano da mesi.
Qualche settimana fa, l’unica amica che ho qui, made in Salento anche lei ovviamente, si è ammalata. “Non sento più gli odori” mi ha detto al telefono, tra un colpo di tosse e l’altro. Ah, ma allora prende tutti veramente. E lo sapevo, ma sino a quel momento non l’avevo realizzato ancora. Il fisico di una trentenne piena di energie ha combattuto per più di due settimane, col virus e con un sistema sanitario al collasso che consigliava un iter diverso a ogni telefonata. Poi ha vinto, quasi da sola, al prezzo di uno spavento che sarà difficile dimenticare.
Nel frattempo io cucino e mangio, mangio e cucino. Riuscire a uscire dalla stessa porta dalla quale sono entrata, in questa quarantena, non sarà così scontato. Ho provato anche a seguire un corso di Zumba online, ma questo appartamento è piccolo, non ci sono gli spazi, la connessione è pessima, non ho nemmeno i vestiti giusti e se mi prendo uno strappo poi devo andare in ospedale, vabbè mi stendo, guardo un episodio, poi dopo magari assaggiamo la torta pasticciotto che ho sfornato stamattina per sentirmi un po’ più a casa. Se il virus attaccasse i pigri sarei spacciata.
In compenso ho scoperto che il mio rapporto di coppia funziona anche da vicino, anzi funziona meglio. Lo sospettavo già da prima, ma è una delle poche dolci conferme dell’isolamento. E meno male, vorrei dire, perché, secondo l’ultimo decreto, se avessimo uno screzio e il mio ragazzo decidesse di mettermi alla porta, dovrei mendicare sino a data da destinarsi perché non posso nemmeno tornare alla mia residenza, salvo che io non certifichi che chi mi ha ospitato sino a quel momento non possa più farlo per giuste ragioni, cosa che mi riservo eventualmente di fare, forse tramite un documento ufficiale riportante ogni battibecco con la firma dei vicini come testimoni.
Domani sarà uno dei giorni più tristi degli ultimi due mesi, comunque. Mia nipote, della quale soffro la mancanza come fosse aria, compie due anni. E io non ci sarò. Faremo una videochiamata per spegnere le candeline, la stessa che facciamo ogni giorno e che la annoia a morte. La tecnologia può arrivare ovunque, sì, tranne che al cuore dei bambini. A loro serve calore, pelle e presenza. Ogni tanto mi canta una canzoncina o mi manda un bacio, poi continua a crescere per conto suo, come è giusto che sia, e io guardo il soffitto e immagino che tutti i ricordi che ha di me si stiano affievolendo piano piano. Sono nata melodrammatica, lo so.
Sapete, la vita normale dei fuori sede non è tanto diversa da quella che sto vivendo io adesso quindi può sembrare strano che io ne parli come se avesse dell’assurdo. In effetti, per me è così. Perché io non ho mai fatto pace con l’idea di andarmene via, non ho mai accettato costrizioni di alcun genere, figuratevi questa. Faccio su e giù da anni, in continuo movimento, a scapito della mia realizzazione professionale e di una stabilità che desidero più di ogni altra cosa, per non rinunciare a tutti i tipi di amore che mi tengono viva, quello per il mio uomo, quello per la mia famiglia e quello per il mio paese.
Ora, che l’obbligo è quello di non muoversi, mi sento persa. Ogni lite passata, perché la distanza è una bestia che non sempre si riesce a gestire, terminata con “Se voglio lavorare, mi devo spostare. Di amore non si campa” che lasciava l’amaro in bocca già in situazioni meno tragiche, ora torna alla mente e sa di fiele. È il sapore della consapevolezza che spostarsi, esplorare il mondo, rischiare di trovarsi lontani da casa nel bel mezzo di una pandemia dovrebbero essere decisioni prese per libera scelta e invece, alle volte, sono l’unica scelta possibile; la consapevolezza che le cose non stavano bene neanche prima, ma ci aspettano tempi peggiori e non abbiamo un piano, siamo allo sbando, a livello personale e globale.
Questo non è quello a cui bisogna pensare adesso, comunque, un nemico alla volta; e diamo priorità alla sconfitta di quelli che rischiano di non lasciarci vivi, per la felicità ci sarà tempo. Speriamo.
Certo, non nascondo che prendere atto che nemmeno in caso di pandemia i salentini riescano a fare fronte unito, un po’ mette tristezza, ma soprattutto fa paura. Sì, perché a me piacerebbe pensare il contrario, ma al Tg affermano che siamo tra le Province più sanzionate d’Italia, e io purtroppo ho un profilo Instagram che lo conferma: gente che va a trovare la fidanzata approfittando per sperimentare i balletti in sincro di TikTok, altra che immortala tavole imbandite a festa nonostante viva da sola, non solo eludendo ogni prescrizione, ma sentendosi anche in dovere di rendere pubblica la propria stupidità, non sia mai che i followers ne perdano traccia tra un appello a restare in casa e l’altro che, evidentemente, non valgono per tutti.
Mi ero ripromessa di non cadere nella polemica, chiedo venia. Perdonerete questo scivolone in nome dell’angoscia che provo nel non avere sotto controllo ciò che succede intorno ai miei cari, il tutto condito con un po’ di sana invidia per chi ancora non ha chiaro il rischio e gode di un pizzico di spensieratezza. La mia prova a fare capolino, di tanto in tanto, ma viene puntualmente bloccata dalle ambulanze che mi passano sotto casa, dirette al vicino Ospedale Maggiore di Parma.
La verità è che sto bene, durante questa lunga luna di miele, forzata sì, ma comunque magica. La mia famiglia, i miei parenti e i miei amici stanno bene. Sono provati ma cazzuti, passatemi il termine, e il nostro passatempo preferito è fantasticare sulle megafeste che organizzeremo una volta svegliati dall’incubo.
La verità è che non mi posso lamentare e che restare a casa, di questi tempi, più che un obbligo è un lusso che ci tiene lontani dagli ospedali.
La verità è che non vedo l’ora che arrivi il momento in cui calcherò di nuovo i basoli della piazza, saltellando tra il Keys e il Posticino per abbracciarvi tutti, uno a uno (mia madre per prima e poi a scalare, so che capirete). Perché quel momento verrà, e avrà il sapore di una felicità che c’è sempre stata eppure sa di nuovo.
Sarà fantastico, promesso.
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