Con quella vergogna tra le mani
Ho ricevuto da Stefano Cucchi, una lettera di cui vorrei farvi partecipi: Mi chiamo Stefano Cucchi, ed ho disagio a farmi riconoscere con il volto della morte. La mia colpa di assuntore di droga m’inchioda alla croce. Io sono un’immagine pagana, la carne di un rito sacrificale.
Nel frastuono dei processi, io, Stefano Cucchi, sono l’ossicino da spolpare intorno al banchetto delle perizie, la disputa retorica di magistrati in cerca d’una verità. Quella che non posso più narrarvi, che non potete ascoltare.
Vi lascio però, un sentimento, una sensazione, uno stato dell’animo. Ve lo dono senza la pretesa che lo accettiate.Vi chiedo solo di non restituirmelo. Se lo avete già, passatelo oltre. Se non lo gradite cestinatelo. Ma vi prego non restituitemelo. Vi lascio la vergogna. Spero non vi offendiate. Avrei voluto portala con me, in altro luogo. Avevo ragioni per provarla e pensavo che la mia dignità di uomo potesse trovare uno spazio, in un futuro da vivere. Sarei stato un giorno un padre, un compagno felice; avrei raccontato i miei inciampi, come succede a milioni di persone.
Ma al Varco, m’è apparso un dio, senza volto. Nella mia dolente inedia, subivo l’affronto del corpo per mani vili, e non trovavo, e non giungevano umane parole, ne bende umide a detergere il sangue, ne acqua sulle labbra asciutte.
Quel dio, era caldo, e mi ha detto: andiamo via. Lasciamo qui solo la vergogna. Qui crescerà. Lasciamola nelle mani di chi ti viola, lasciamola nelle mani di chi cercherà la verità, lasciamola nelle mani di chi giudicherà, di chi sarà indifferente. Lasciamola qua la vergogna.
Ho letto questa lettera mentre nella mia casa si svolgevano scene ordinarie, banali a raccontarsi. I miei figli erano intenti chi a suonare una chitarra, l’altro a scambiare opinioni al telefono sulle materie scolastiche. Capivo dai rumori, che mia moglie ci avrebbe a breve richiamati intorno alla tavola.
Per i miei figli, che presto incontreranno le miserie e le gioie di questa vita, vorrei trovare le parole.
Ma non le trovo. E mi ritrovo con quella vergogna tra le mani.
Vorrei sentirmi cittadino, artefice, vorrei sentirmi Stato. Ma non posso.
Vorrei essere padre, cercare di spiegare, ascoltare, portare l’esperienza ai figli perché la usino, affianco alla loro. Ma non posso.
L’incredulità si mescola con la rabbia, ogni valutazione di buon senso si scontra con la realtà.
Mi sento inerme.
Tamburello con le dita sul piano dello scrittoio ed un terrore mi assale: che io possa lasciare a loro quel che ho ricevuto, la stessa vergogna.
Scusate il disturbo.
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