“Che ne sarà della nostra Italia?”

Mi capita spesso, considerando i tanti fatti successi nel corso di queste ultime settimane che coronano forse indelebilmente lo scenario politico attuale, di pensare al futuro del nostro Paese e non vi nascondo che mi riservo di provare solo tanta amarezza. Non so se questo stato d’animo possa servire a segnare il mio punto di partenza nell’impegno o se al contrario, sia esso un qualcosa di negativo considerando la mia giovane età, il che - mi rendo conto - è inammissibile.
“Che ne sarà della nostra Italia?” mi dico, “che ne sarà di Essa se ci nascondiamo dietro ad un becero dito puntato? Che ne sarà dei nostri valori se vogliamo trovare a tutti i costi un capro espiatorio che possa in qualche modo giustificare un sistema che da anni grava sulle spalle della povera gente? Che ne sarà della nostra identità racchiusa nel vedere se stesso nell’altro e con questi stabilire un rapporto di integrazione?” Di certo l’identità non dipende solo da ciò che un sistema economico ormai globalizzato vuole farci credere, parliamo di valori e sono proprio i valori di comunità che sono messi in discussione. Siamo più deboli, siamo più poveri, siamo vittime di una propaganda che divide, che distrugge l’umana voglia di “tendere il braccio”, siamo vittime della paura dell’altro, siamo deboli in Corpo ma soprattutto in Spirito e non ce ne rendiamo conto. È uno scenario inquietante questo, che trova riscontro nei tanti attacchi razzisti contro il diverso.
Mi domando: cos’è per noi la diversità? Qual è il criterio morale e soprattutto sociale sul quale si basa questa categorizzazione? I Vicepresidenti del Consiglio dei Ministri continuano a negare che vi sia un problema, mirano a farci credere che un giorno l’Italia potrà essere un posto migliore [mi ricorda qualcuno] e vanno avanti per la loro strada curva come la loro umanità, incapace di gestire una situazione che ha le radici in profondità, preferendo eliminare il substrato del problema, senza capire che una nazione che non accoglie, non integra, non corre in aiuto, è una nazione destinata a morire. Intanto mi sento sempre più solo: un giovane in un Paese vecchio che forse non lo rappresenta più. Ed è ovvio che sia così, perché la lotta contro il razzismo non è monopolio di pochi partiti politici: è un impegno di tutti. Alcuni mi dicono che hanno provato paura a girare per strada da soli e solo allora ti rendi conto che in ballo c’è molto più di una gara tra politicanti, in gioco c’è la dignità del nostro saper stare insieme, perché chi ha il coraggio di non ammettere rischia di essere complice di un clima di negazionismo che fa male all’Italia, ai suoi valori, al suo futuro.
L’onestà e la serietà sbandierata in campagna elettorale, il Vangelo di Cristo usato per parlare ai molti, il Rosario (verde!) tra le mani, cambiano volto e hanno l’immagine di prese di posizione, perché si sa: il Vangelo è facile da sbandierare, il punto difficile è quando si smette di guardare all’oggetto e si inizia a trasformare in prassi il contenuto. Invece no, del popolo tocchiamo l’intimo, diamo voce alle paure a fronte di un pensiero che falsa sventolandogli sul naso il bisogno di sicurezza personale. E ci dimentichiamo ancora una volta della sicurezza collettiva, quella che va oltre i confini di uno Stato, quella che tende la mano per risollevare e dare dignità, quella che prende dal mare un corpo e lo adagia su di una scialuppa.
Chi guarda il volto di Daisy Osakue, chi osserva gli occhi smarriti di quella donna rimasta due giorni in mare, può fare solo una cosa: provare vergogna, perché quei volti segnati sono il volto del nostro Paese nella stagione amara che stiamo vivendo. Un volto che presentiamo al mondo e a noi stessi. E che non ci somiglia ma neanche ci scompiglia, non per il colore quanto per la ferita che porta. Anni di paure, di stereotipi, di pregiudizi stanno producendo bullismi assurdi, atti violenti, assalti folli. Dicono che non c’è razzismo in ciò che è accaduto, dicono che sono «sciocchezze».
Vergogniamoci. Intanto occorre avere la consapevolezza dell'esistenza del fenomeno e chiamarlo per nome e serve capire poi che non si può pensare di fermare la storia. Il destino dell'Italia è già segnato nell'incontro tra “diversi” che fanno della propria diversità ricchezza. Il mondo non finisce al di fuori delle nostre abitazioni. È nella fatica dell'incontro e nella curiosità della scoperta che si trova il senso della vita senza essere prigionieri della paura. Partiamo dalla consapevolezza di possedere al di là di tutto un’etica pubblica che si esplicita nella pedagogia dell'esempio, nella capacità di coltivare visioni positive oltre i tempi di una prova elettorale. L'Italia è un grande Paese che ha saputo promuovere nel corso della storia valori universali di un umanesimo secolare. Pensare di ritornare nelle piccole patrie non è avere una grande ambizione per un Paese e non è rendere servizio alle prossime generazioni. È la capacità di spingersi oltre, di non cercare a tutti i costi il dato bruto che ci conduce realmente al reale per ciò che esso è in rapporto a noi.
Forse sembrerà un’utopia, ma cos’è in fondo? Un processo sempre aperto racchiuso in un desiderio di rischiare, di una capacità di relazione, di un incontro, di una progettualità condivisa, di un impegno di speranza. A questa utopia e a questo sogno non possiamo rinunciare, perché significherebbe iniziare a scrivere la storia secondo parametri di disumanità che soffoca dentro di noi il senso della solidarietà, della tenerezza, della cura e la ricerca di una giustizia più grande.
Non perdere, caro amico, la capacità di guardare all’altro e a noi stessi come esseri umani. Ti prego. È forse questa la realtà che abbiamo bisogno di ritrovare, è forse questo il confine tra realtà ed utopia!
Michele Scalese

Mercoledì, 8 Agosto, 2018 - 00:04