Arte senza Parte
Sappiamo che l’arte contemporanea ci ha abituati, sin dalla manzoniana (il Piero non l’Alessandro) ‘merda d’artista’ – a sua volta omaggio all’orinatoio duchampiano – alle più viete sconcezze e stranezze, tuttavia non prive di acutezze e durezze. Non sappiamo quindi come ‘rubricare’ nel convulso panorama creativo attuale l’evento artistico testimoniato dalle immagini riprodotte. Con un occhio al ‘locale’ (quello che si misura col globale) potremmo pensare che si tratti di un guanto di sfida gettato dall’anonimo (o anonima) artista (o non sarà, come usa, un collettivo?) ai galleristi di Galatina, allo ‘storico’ Roberto De Paolis, già cultore di Tancredi e Bonalumi, all’avveniristico Gigi Rigliaco, che non disdegna di seguire e promuovere le tendenze nuove e sperimentali – manieristico-performative di Manieri come anche i ritorni della pittura-pittura in chiave neo-neopop di Cuna e Masciullo e Fontana, per non citarne che alcuni; alla parte neo-neoclassica parte neo-gestaltiana, arrivata più di recente sulla scena ma subito impostasi con stile, Nunzia Perrone?
O forse si tratta di un guanto di sfida lanciato direttamente agli artisti, alle sperimentazioni, di ascendenza nespoliana ma largamente autonomizzatesi, colorico-materiche di Pitardi, alle ricerche pedagogico-naturalistiche di Adalgisa Romano, al neo-totemismo elegante di Gravante, alle algide e fulgide cosmografie di Stanca; o si tratta forse di superare Latino nell’esaltazione coloristico-concettuale delle materie ‘grezza’? o di fare il controcanto della polita e silente modernità di Toma? Della spazialità minimalista e provocatrice della Vozza? O è una sfida piuttosto al guttusianesimo addolcito e vibrante di Cajuli? Una rivolta contro il folklore? O contro il raccolto francescanesimo materico di Cudazzo? O uno sberleffo al sacrale e trasognante medievismo di Diso e di Mariano? Una sfida all’essenzialismo ‘grafico’ di Minafra? Al poeticismo scultoreo di Congedo? Alle cromie fisico-metafisiche di Rossetti?
Tale è la ricchezza di ambienti e riferimenti, impossibile citarli e ricordarli tutti, me ne scuso, che l’irruzione di una installazione di questa potenza visuale e visionaria, disorienta, la percezione e la concezione. La netta volontà di sfondare il diaframma della rappresentazione che non può non far pensare al più puro Vito Mazzotta, l’audacia nell’avvicinare e coinvolgere lo ‘spettatore’ con una spettacolare sinestesia, che fa riavvampare il ricordo della Compagnia Raffaello Sanzio, e risalendo, del Vangelo di Oxyrinco, d’odiniana memoria, e rideviando delle Beniane-Deleuziane Sovrapposizioni; l’assemblaggio delle più diverse materialità, che ricorda le operazioni dei Baj, degli Schwitters, degli Osorio, la sottile concettualità nella denuncia dell’abbondanza da paese del Ben-Godi, che non può non far pensare al miglior Cattelan, o forse alle profetiche sperimentazioni materico-concettuali di Palamà e non può non ricondurci al tempo stesso ai mitemi mediterranei di Pascali, il contrasto dirompente tra allestimento e contesto, che fa sognare le più audaci performance della Abramovic, o le labirintiche strutture visuali dei Cremaster, o le dissonanze iperrealiste di La Chapelle ed oscura a civetterie le silhouette della Beecroft; il ritorno alle radici del puro pop wahroliano e rauschemberghiano, ma denudato della sua carica ironica, ricondotto alla sua radice mercificata e mercificante, che indica una non superficiale assimilazione teorica delle tesi marcusiane, infine l’estrema cura formale posta nel raggiungere l’effetto ‘casuale’ – tutto questo fa stupire ed induce a meditare sulla potenza dello sguardo dell’artista, del creatore sarei tentato di dire che tanto ha osato e pensato.
Confuso da questa immensità, che induce il senso a naufragare, affido questi miei dubbi, a più acuti e colti lettori nella speranza che sappiano sciogliere qualcuno degli interrogativi che l’opera pone all’esistenza. Purtroppo, come sempre, la riproduzione fotografica digitale offre solo un pallido referto dell’energia che dall’opera stessa si sprigiona. Ma offrono almeno la traccia di un evento, che come tutto nella contemporaneità, è progettato e costruito per svanire, come già le più audaci opere – i nidi – del grande salentino Luigi Presicce.
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