'Allacciate le cinture'. Ozpetek non tradisce mai

Tradisce così: il regista dell’introspezione talmente sincera e lucida da risultare a tratti delirante e irragionevole decide di esordire tracciando nettamente i contorni di quello che minaccia di rivelarsi un colossale flop . Quasi con indifferenza, disperde l’entusiamo dei suoi fans più affezionati e fiduciosi e allontana qualsiasi timido sospetto di originalità dal pubblico degli spettatori “terzi”, quelli che da Ferzan Ozpetek (“Ferzan chi? Ah, Ozpetek. Ma Ozpetek chi?”) non si aspettano null’altro che quello che verrà proiettato sullo schermo.
L’occhio che inizia a sbirciare e a rappresentarci la storia è collocato volutamente in una posizione da cui difficilmente si potrebbe distinguere un grattacielo da una casetta in campagna: le nuvole sono spesse e di un bianco impenetrabile; lontano, comodamente seduto accanto al finestrino, in un aereo diretto chissà dove, l’osservatore si sofferma un po’ a guardare giù, preme la testa contro il vetro, i primi piani dei personaggi si fanno sempre più insistenti, più statici, più prolungati, ma mai più chiari.
Elena è una giovane donna, determinata e amante delle sfide, nemica del perbenismo e dell’ignoranza. Antonio è, a malapena, un uomo, che non riesce a vedere al di là del suo naso, e per cui niente e nessuno merita rispetto, tatto o, più semplicemente, un sorriso. Da quell’aereo riusciamo a scorgere solo una noiosa e stereotipata attrazione fisica tra due persone che si toccano ma non si vedono, si pensano ma non si parlano. Deludenti tradimenti incrociati, l’amicizia (l’unica autentica?) con l’amico omosessuale, Fabio, le follie della zia ribelle ma fragile, le paure di una madre che ha sofferto forse troppo in silenzio si alternano pigramente sullo sfondo di una città, Lecce, e dei suoi dintorni sul mare, che forse per noi che l’abbiamo nel cuore costituisce di per sé un valore aggiunto.
Elena scopre di avere un tumore al seno. In ospedale conosce Egle, una donna che sa convivere con la sua malattia con un’ironia spaventosamente travolgente e sa regalare ad Elena quelle ultime dosi di ottimismo e tenacia che solo chi vede la propria immagine offuscarsi giorno dopo giorno nello specchio riesce a somministrare con tanta sapienza. Antonio, suo marito, non è in grado di starle accanto, la tradisce e non sa essere credibile nemmeno agli occhi dei figli, che ad avere un padre hanno rinunciato da tempo, e così, per spirito di sopravvivenza, cercano di abituarsi anche all’idea di una madre che potrebbe da un momento all’altro svuotare per sempre le loro vite ancora tutte da scrivere. Ma non è nel dolore della malattia o nella malinconia delle assenze che si esaurisce la potenza emotiva su cui il film può far leva.
È una manovra non prevista a trascinare via l’osservatore là dove sarebbe sempre dovuto stare; il pilota che avverte “Allacciate le cinture, gentili passeggeri” improvvisa una discesa in picchiata e ci catapulta, in modo tutt’altro che gentile, nel cuore del film e della sua dimensione profondamente evocativa e finalmente introspettiva. Un flashback ci riporta indietro e ci fa riflettere sul fatto che mai nel film abbiamo visto e compreso come e perché sia nato questo amore. Non potevamo vederlo da lassù. Non potevamo scorgere le carezze, sentire le risate, sorprenderci alla vista di un anello timidamente posato sul bancone di un bar: da un lato lui, con la serietà infantile di chi vede in lei la donna della sua vita e sa confessarglielo candidamente; dall’altro lei, che è sempre stata troppo indipendente e padrona di se stessa per immaginare che prendersi cura di lui potrebbe davvero essere ciò che amerà fare per il resto dei suoi giorni.
Le immagini maldestramente abbozzate in principio si completano, ogni spettatore le colora a suo modo, gli occhi che osservano diventano centinaia, e il film si interrompe sul più bello, proprio quando si materializza finalmente la certezza con cui sarebbe dovuto iniziare: Ozpetek non tradisce mai, fa giri immensi, ma alla fine torna sempre all’essenza, quella che ciascuno di noi custodisce dentro di sé, l’emozione che ci rende forse fragili, contraddittori, confusi o insopportabili, ma certamente, e per fortuna, umani.

Martedì, 11 Marzo, 2014 - 00:03