10 gennaio 1961. Lettera di un emigrante

Succede a volte di non riuscire a chiudere un cassetto del comò per quanto è pieno. “Devo sistemare un po’ di cose, buttare via ciò che non serve, fare in modo che torni a chiudere. Lo farò oggi, tanto non ho nulla da fare, tanto sono pensionato e tanto, mi annoio tanto” – disse a se stesso quell’arzillo vecchietto. Tirò fuori il cassetto e sotto calzini, maglie e mutande spuntò un pacchetto legato con elastici. – “Ecco perché non chiudeva” – mormorò.  Tirò fuori quel pacchetto e cominciò a scartarlo. C’era una foto di quand’era militare,  una foto con tanti amici, una fatta al mare e altre. Poi lettere, tante lettere conservate come se fossero appena arrivate. Ne prese una a caso, conosceva la scrittura. Era la sua.
"Mia carissima, ti scrivo queste poche righe, per dirti che mi sto ambientando,  che non è più come i primi giorni e sono sicuro che la cosa ti farà stare più tranquilla. Qui c’è tanto lavoro, non mi trovo male, comincio a capire la lingua e comincio a farmi capire. Anche in cucina me la cavo, certo non è come quando sei a casa tua, ma bisogna fare sacrifici nella vita. Fa tanto freddo, il sole non si fa mai vedere e quel po’ ogni tanto che si vede, non scalda. Oggi ho fatto un po’ di lavoro straordinario e penso anche domani, vado d’accordo con i colleghi e anche con il “capo” , mi sembra una brava persona e poi è figlio di italiani come noi, del Sud, emigrati in questi posti tanti anni fa. Il pensiero è sempre per voi tutti e spero sempre un giorno di tornare e non ripartire mai I bambini come stanno?  A scuola vanno bene? chiedono di me? E papà come sta con tutti i suoi malanni e la mamma? So che questa lontananza fa male ma è necessaria perché ci farà stare meglio dopo. Faccio il turno di mattina tutta questa settimana e così il pomeriggio faccio un po’ di spesa, preparo qualcosa,  lavo qualcosa. Certi momenti mi sento tanto solo avrei voglia di avervi vicino e mi mancate da morire. Poi mi faccio coraggio e vado avanti. Ha ripreso a piovere come al solito, la pioggia mi aggiunge altra tristezza, ma so come fare: penso a tutti voi e mi splende il sole nella mente e nel cuore. La pioggia? neanche la sento più.  Un bacio a tutti quanti, vi voglio un sacco di bene.
PS . rispondimi presto, io domani ti scrivo di nuovo, magari dirò le stesse cose ma è l’unico modo che ho per sentirvi vicini. “ .                                 

10 gennaio 1961
Sono passati più di 40 anni, ma vivo ancora, ogni momento come se fosse oggi. Vivo ancora tutte le emozioni e  tutta la rabbia  per non poter far niente per cambiare il mondo. Sento ancora l’eco del pianto, a stento nascosto. Rivedo le lacrime sul volto di chi mi salutava. E poi il treno che partiva lentamente avvolgendo in un fumo bianco e denso la stazione e la gente sino a farla sparire. Rivivo tutti i giorni di quei lunghi 20 anni trascorsi in quella parte del mondo tra paure, lacrime e rabbia. Rabbia per una fetta di vita fatta di attesa e di delusioni, di amore e di odio per il mio Paese, di sconfitte e di vittorie. 
Una valigia di cartone carica di sogni e desideri, di entusiasmo e di speranza . Sento ancora sulla pelle tutti i rimpianti per i baci di buona notte non dati, per le cene saltate, i compleanni non festeggiati,  un compito mai letto,una pagella mai vista. Non ho visto crescere, non ho visto invecchiare, ho visto la città trasformata e ogni volta che tornavo trovavo sempre qualcosa di nuovo, di diverso o forse ero io che avevo un po’ scordato. Ho rimpianti per le carezze non date, per non essere stato vicino a mio padre morente. Tutti i giorni uguali, ad aspettare una lettera, ad aspettare una notizia, aspettare per tornare, aspettare per sperare. Sono stato un “emigrante” uno dei tanti, in giro per il mondo e come tanti ho sacrificato la mia giovinezza sperando in una vita migliore che non è mai attivata. Avevamo sogni da realizzare che si sono infranti su un treno in partenza. Avevamo illusioni da vendere, progetti andati in fumo, progetti rubati, progetti 
– “ Suonano alla porta , chi sarà? “- e’ la signora delle pulizie, m’ero scordato, mi da una mano una volta la settimana per le cose più pesanti. Viene da un paese lontano ed è come me un “emigrante”.  Ma oggi no, non mi va e poi mi sembra tutto in ordine e pulito. La faccio entrare, la faccio accomodare e intanto le preparo un caffè. Le dico – ti auguro di tornare presto al tuo paese, come un giorno sono tornato io. Di trovare un lavoro a casa tua, dove sarai meno sola, dove avrai più affetti.  Domani ti regalo il biglietto del treno , torna a salutare i tuoi, a respirare un po’ di aria di casa tua, dove sei nata, dove sei cresciuta.   Io ce la faccio uguale, non ti preoccupare.  Porta il saluto di un “emigrante” alla tua gente, al tuo paese, alla tua terra, alla tua famiglia. Di a loro di sperare, sperare per un domani migliore, sperare per un mondo migliore, sperare per una vita migliore.
-Il vecchietto ha gli occhi lucidi, non riesce a trattenere l’emozione. La Signora è seduta di fronte, non riesce a capire, riesce solo a dire:  grazie, grazie, grazie. Il caffè è salito, ma nessuno se n’è accorto.

Lunedì, 20 Maggio, 2013 - 00:03